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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2014 alle ore 11:15.
L'ultima modifica è del 26 settembre 2014 alle ore 11:52.
Per alcuni musulmani il mullah Omar dei talebani poteva aspirare al titolo. Lui si definiva "principe [emiro] dei credenti", un termine storico quasi, ma non del tutto, sinonimo di "califfo". Ma il mullah Omar non è di ascendenza Quraysh né (secondo alcuni) fisicamente integro, avendo perso un occhio in battaglia. E nemmeno bin Laden si è mai proclamato califfo, anche perché non aveva sangue Quraysh (Fred Donner mi ha detto che il rilievo della famiglia bin Laden in Arabia Saudita, in stile Kennedy, ha garantito che nessuna fandonia su un'ascendenza Quraysh potesse prendere piede). Questa affezione per la parola "califfo" si estende a quasi tutti gli esponenti della vecchia guardia di al Qaida, che odia l'Isis. In generale, più la barba è grigia, meno entusiasmo c'è per la leadership di al-Baghdadi. Abu Muhammad al-Maqdisi, il palestinese teorico del jihad che ha fatto da mentore ad Abu Mus'ab al-Zarqawi (a sua volta guru di al-Baghdadi), ha condannato la proclamazione del califfato perché crea discordia fra i mujaheddin. Bernard Haykel, esperto di diritto islamico a Princeton, dice che i califfi dovrebbero essere scelti attraverso una consultazione tra tutti gli esperti di diritto islamico, e al-Baghdadi non ha dimostrato di avere il sostegno nemmeno della maggioranza dei musulmani ultra-radicali. Ma le proclamazioni del califfato sono state finora così rare soprattutto perché sono clamorosamente fuori sincrono con la storia. La parola evoca la maestà di ere remote e Stati che valicavano i continenti. Per un gruppo errabondo di uomini braccati come al Qaida, proclamare un califfato sarebbe stato un grottesco esercizio di illusione di grandezza, come se qualche decina di neonazisti o di fascisti italiani proclamassero il Sacro Romano Impero o si conciassero come Cesare Augusto. «Chiunque voglia fattivamente rifondare un califfato è profondamente legato a una visione retrograda dell'Islam», dice Donner. «Sono mille anni che il califfato ha cessato di esistere in quanto istituzione concreta». Cole Bunzel, studente di dottorato a Princeton, è del parere che al-Baghdadi abbia portato avanti una politica di «ambiguità strategica» sul momento in cui dichiararsi califfo. «Lo Stato islamico ha agito come un califfato fin dal principio, ma non poteva annunciarsi come tale perché sarebbe suonato ridicolo». Ora che controllano Raqqa da più di un anno, e governano su un territorio vasto quanto quello su cui governava Abu Bakr, il primo dei califfi ben guidati, la proclamazione appare molto più credibile. Anche le esecuzioni di massa e le crocifissioni pubbliche hanno contribuito in modo rilevante a cancellare qualsiasi alone residuo di comicità. La fedeltà pedissequa all'esempio storico, almeno, fa apparire le convinzioni e i piani dell'Isis un po' più prevedibili di quelli di un'organizzazione dinamica e di respiro globale come al Qaida. Sappiamo, per esempio, che al-Baghdadi pretende una fedeltà totale e che la struttura califfale dell'Isis mal si presta a quel sistema di cellule terroristiche che ha reso così ostico sradicare la rete di bin Laden.
Inoltre, limita pesantemente le opzioni a disposizione dell'organizzazione, perché un attacco contro una città occidentale scatenerebbe un immediato e devastante contrattacco su Raqqa, e senza bisogno di laboriose fumigazioni in centinaia di grotte di montagna. Ma allora che cosa dobbiamo fare per combattere l'Isis? Concedere ad al-Baghdadi più tempo come califfo rischia di servire soltanto ad accrescere la sua plausibilità in quella veste e a consentirgli di attirare altri combattenti nel suo Stato. Se è così, mi ha detto preoccupato uno studioso occidentale, faremmo bene ad ammazzarlo in fretta. Al momento soltanto un numero infinitesimale di musulmani gli ha giurato fedeltà. Il pericolo più grande è lasciare che questo numero cresca. Se al-Baghdadi da figura divisiva si trasformerà in un personaggio popolare, la sua morte avrà pesanti ripercussioni. «Ammazzare il capo religioso anche di una piccola minoranza di musulmani non è buona propaganda», dice Cole Bunzel. Ma un'invasione su larga scala da parte degli Stati Uniti avrebbe effetti altrettanto deplorevoli, perché trasformerebbe istantaneamente il misero esercito di al-Baghdadi nella più importante organizzazione terroristica mondiale. Un approccio equilibrato ed efficace, perciò, sarebbe di ucciderlo il più in fretta possibile e usare curdi e sciiti per arrestare l'espansione del suo Stato. Limitando l'azione militare statunitense a raid mirati e guerre per procura, potremmo evitare di consacrarlo inavvertitamente, lui o il suo successore, come Gran Capo dei Capi dei Mujaheddin. È vero anche che uccidere un califfo potrebbe estinguere un'intera discendenza. Si pensi all'ultimo califfo abbaside di Baghdad, al-Mustasim Billah. Quando i mongoli saccheggiarono Baghdad, nel 1258, il loro capo, Hulagu Khan (nipote di Gengis Khan), ordinò massacri di proporzioni raramente eguagliate nella storia: i suoi uomini assassinarono qualcosa come un milione di musulmani in una settimana, in un'epoca in cui la morte veniva ancora impartita manualmente, con spade e clave. Pur nel trionfo, Hulagu trattò il califfo con circospezione.
Poiché portava sventura bagnare la terra con sangue reale, fece avvolgere Mustasim in un tappeto e ci fece passare sopra un'intera scuderia di cavalli. Che avvenga per opera di un drone, oppure per opera di una pallottola sparata con precisione da una delle famose donne soldato curde, verosimilmente la morte di al-Baghdadi non sarà altrettanto linda. L'Isis quasi certamente ha già un successore in mente. Ma le scorte di califfi non sono infinite, secondo alcuni studiosi islamici schierati con al-Baghdadi e analizzati da Bunzel. Uno di costoro, il religioso del Bahrein Turki al-Bin'ali, cita un detto attribuito al profeta che prevede un totale di dodici califfi prima della fine del mondo. Bin'ali considera legittimi soltanto sette dei califfi storici, e al-Baghdadi sarebbe quindi l'ottavo su dodici (e in certe tradizioni sunnite, il nome del dodicesimo e ultimo califfo, Muhammad ibn Abdullah, è già stato predetto). Queste credenze sarebbero semplici curiosità se la puntigliosità dimostrata dallo Stato islamico non inducesse a pensare che i suoi capi credono letteralmente nella veridicità della profezia, e che agiranno dunque di conseguenza. David Cook, uno storico della Rice University che studia l'apocalitticismo islamico, rimarca che le battaglie che precederanno il Giudizio Universale avverranno in quella che oggi è la Siria, con uno scontro finale nell'anno 1500 dall'Egira, ossia il 2076 dopo Cristo. Se gli esperti di Isis hanno ragione, quattro raid aerei potrebbero bastare per costringere il califfato a trovare e nominare un uomo fisicamente robusto di nome Muhammad ibn Abdullah, con tutti e due gli occhi e nessun arto mancante. Un missile Hellfire dopo l'altro, potremmo essere vicini alla fine del mondo.
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