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Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2014 alle ore 07:03.

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Donne tecnologiche, pragmatiche, a volte persino spiritose. Vanno in piazza, in Gran Bretagna, per abolire la Page 3, la pagina tre dei tabloid riservata alle donne nude, o perché sul retro delle banconote delle sterline non ci siano soltanto uomini (sul davanti una donna c'è: è la regina). Fanno marce contro le violenze domestiche, alzano cartelli contro il simbolo della coniglietta di Playboy che ormai compare pure sugli astucci per i ragazzini delle medie, protestano contro la depilazione integrale del pube, simbolo della pornografia imperante nell'immaginario maschile, infilano magliette con slogan più o meno riusciti. Soprattutto vivono, combattono e litigano sulla rete, condividono storie e si organizzano, in 140 caratteri possono stroncare chiunque accusandolo di sessimo, così come possono far sì che una canzone venga bandita nei campus: è accaduto a Blurred Lines di Robin Thicke, meglio nota come la rape song.

Sono le donne del nuovo femminismo, spesso non amano farsi chiamare femministe – termine arcaico e serioso, dicono – a volte lo pretendono, ché non è data una femmina che non sia femminista. Secondo la definizione ufficiale, si tratta della fourth wave del femminismo, come ha scritto la giornalista britannica Kira Cochrane (la matrice inglese di questa nuova onda non vi sarà sfuggita: in Italia ci sono state manifestazioni di piazza e mediatiche; e il forum più attento è La27esimaora sul Corriere). Cochrane stava scrivendo un saggio su «tutte le donne ribelli» che riempiono le piazze e si è ritrovata ad avere a che fare con ragazze che maneggiano con la stessa dimestichezza Tumblr e il linguaggio del femminismo. In All the Rebel Women: the rise of the fourth wave feminism, la Cochrane racconta le loro aspirazioni – basta con le disuguaglianze, basta con le violenze – e le differenze rispetto alle rivoluzioni precedenti: le suffragette prima di tutte, poi le proteste degli anni 70 e 80, e il femminismo nella transizione tra madri e figlie negli anni 90.

Il nuovo femminismo diventa buono per le celebrities quando, con #YesAllWomen, Lena Dunham e altre ragazze famose spiegano che la questione femminile riguarda i diritti umani, non è una faccenda per sole donne. Poi torna la vita vissuta sull'Everyday Sexism Project, un blog creato dalla nemmeno trentenne Laura Bates, che ha trasformato violenze e harassments taciuti di decine di migliaia di donne in una potente forma di condivisione, incarnando, come ha scritto la Cochran, la frase femminista «l'esperienza personale è esperienza politica»: i problemi non sono individuali ma collettivi, vanno trovate soluzioni politiche (è diventato un libro, Everyday Sexism, che ha ricevuto recensioni accorate). In Unspeakable Things, Laurie Penny, ventisettenne contributing editor di New Statesman, spiega «il nuovo ordine mondiale del femminismo», in cui si sexta alla grande e al contempo si combatte contro l'agenda neoliberale che accentua le divisioni e rende difficile per le donne integrarsi e fare carriera. Un po' Occupy Wall Street e un po' Snapchat, con un'attenzione particolare per i gay e i transessuali, «l'underclass», come la definisce Penny, all'origine di liti ideologiche ferocissime: il corpo delle donne comprende anche il corpo dei transgender? È un dibattito che si muove in parallelo con il classico del nuovo femminismo, la ragazza raccontata da Caitlin Moran nel romanzo How to Build a Girl, alle prese con il compiacere i maschi e le loro pretese (per lo più sessuali) e la volontà di non essere soltanto «muta e accondiscendente».

In un saggio sul Financial Times, Melissa Harrison ha scritto che questo nuovo femminismo non è omogeneo al suo interno, vive di contributi molto diversi. Ci sono le ragazze di The Vagenda, le giornaliste Holly Baxter e Rhiannon Lucy Cosslett, che raccontano come i media, i media pensati per le donne in particolare, distruggano la fiducia delle donne: per loro la scelta più sana per una donna è smettere di leggere i giornali femminili. Germaine Greer, femminista storica e affilata, ha smontato The Vagenda pezzo a pezzo, dalla copertina fino ai dati sbagliati contenuti nel libro: fanno più male queste due qui al femminismo che tutte le copertine sull'orgasmo perfetto dei magazine per le donne, ha scritto la Greer. Chi è femminista, allora? La stessa Laura Bates dell'Everyday Sexism ha iniziato a definirsi femminista soltanto di recente, prima l'etichetta rimandava a mondi lontani, stantii, liti salottiere d'altri tempi.

Monica Lewinsky ha scritto su Vanity Fair di non considerarsi una «femminista con la F maiuscola», lei che ha subìto uno dei trattamenti meno dignitosi della storia del femminismo, quando la crème del movimento si riunì in una saletta privata del Bernardin a New York sorseggiando champagne, difendendo il presidente sporcaccione (Bill Clinton) e attaccando la puttanella arrivista che pensava, lei stagista portatrice di pizze, di poter tirare giù una presidenza a suon di sesso orale. Marissa Mayer, ceo di Yahoo! in odore di santità femminista per le iniziative a favore delle donne che ha introdotto nella sua azienda (non diventerà santa perché è tornata al lavoro con il figlio partorito da poche settimane, nessuna donna potrà perdonarglielo), dice di non vedersi rappresentata nella definizione di femminista: bada al bene delle donne, non aggredisce il potere dei maschi. Beyoncé è riuscita a far parlare per mesi del suo femminismo-sì-no, prima rifiutando l'etichetta poi, spaventata dall'accusa di non essere femminista a sufficienza, rivendicandola facendosi fotografare nella posa di Rosie the Riveter, icona femminista della classe operaia, e incidendo una canzone – Flawless – con passaggi del discorso di Chimamanda Ngozi Adichie (Ted Talk, 2013) dal titolo: Dovremmo essere tutte femministe.

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