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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2014 alle ore 08:14.

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Vent'anni dopo che Richard Rorty sentenziava che «non esiste più, se non nel senso stilistico o sociologico..., un qualcosa descrivibile come "filosofia analitica"», un contingente agguerrito di eminenti studiosi coordinati da Michael Beaney, professore a York, ne fa la storia (o almeno così si annuncia nel titolo di queste più di mille pagine tra saggi, cronologia e bibliografie) non dando affatto la sensazione di occuparsi di cosa morta. Anzi, se fino a due decadi fa la filosofia analitica era pressoché esclusivo appannaggio di autori e lettori in lingua inglese, sin dalla fascetta editoriale del volume si apprende che invece oggi, in era di globalizzazione, essa è diventata sempre più influente anche nell'Europa Continentale, in America Latina, in Asia e perfino in Africa. Cosa che però dobbiamo credere sulla parola, perché di questa diffusione nel volume troviamo appena cenno, mentre manca anche qualsiasi riferimento alle vicende della filosofia analitica in Italia, in Francia o in Germania, con la sola Polonia e a un po' di Scandinavia (solo quando si esprimono in simboli logici o in lingua inglese) a rappresentarne le fortune nel Continente. Potremmo semplicemente dire, allora, che questa è una storia della filosofia analitica in lingua inglese, e che se figure per gli "alloglotti" importanti come Giulio Preti, Jacques Bouveresse o Ernst Tugendhat non vi compaiono, sarà compito delle storie della ricezione locale di quella filosofia render loro giustizia. Ma a mio avviso il limite di queste omissioni si avverte quando si tratta di tentare, come fa Beaney nella prima parte del volume, di definire che cos'è la filosofia analitica.
Si è detto e ridetto, e lo ripete Beaney, che la filosofia analitica, alla ricerca delle sue origini, "canonizza" ora Frege, ora Bolzano e Husserl, ora (come indica nel volume Gottfried Gabriel) Herbart e Lotze, fino a canonizzare Kant e i neokantiani; ed è evidente, allora, che essa si definisce dal raffronto con altre filosofie (nessuna di queste in lingua inglese, tranne il pragmatismo), alle quali in una certa fase si contrappone, e con le quali in altri momenti si confronta e si riconcilia. Come con l'ermeneutica, con il marxismo, con la fenomenologia, con alcune forme di idealismo, con il foucaultismo. E questo ci dovrebbe avvertire che non è tanto questione di sapere una volta per tutte da dove si viene e dove si va, con quali alleati e quali nemici, perché la storia ci dice cose più complicate e sicuramente meno univoche. Ce lo insegna esemplarmente la storia del rapporto tra filosofia analitica e tradizione hegeliana, originariamente conflittuale (e Nicholas Griffin qui ci racconta come la tradizione egemone dell'idealismo inglese a Cambridge venga spazzata via da una nozione di proposizione considerata da Russell come un'unità indipendente dalla mente), ma oggi in qualche modo riattualizzata in epistemologia, con Sellars, Brandom o Westphal. Il che dimostra che la filosofia analitica consolida una sua identità e fa valere una sua "differenza" sempre in contesti diversi, nella complicazione di interessi prioritari e di presupposti "metafisici" diversi e nella provvisorietà della contrapposizione con altre filosofie. Proprio per questo leggere Idealismo e positivismo di Preti (1943), per esempio, sarebbe servito a capire di più come si approda a soluzioni "analitiche" per sciogliere alcuni nodi della filosofia idealistica, e senza affidarsi a posizioni realiste alla Russell, ma facendo valere le ragioni di una certa fenomenologia e di un certo trascendentalismo; cosa che diventerà interessante in seguito, e in contesti diversi, ma dai quali indubbiamente c'è da astrarre qualcosa di essenziale.
Così come sarebbe stato utile saper leggere Tugendhat, che reagiva alla aletheia heideggeriana e che fondava analiticamente un'antropologia del relazionarsi a sé, facendo intravedere dove poteva approdare un discorso sulla verità e sulla mente a partire da un diverso referente polemico. In molte parti del volume, invece, con alcune rilevanti eccezioni (tra cui Woodroow Wilson e Skorupski), questa storia della filosofia analitica è una storia "interna", che dà per presupposta una identità (sia pure non definibile in termini di proprietà necessarie e sufficienti) e che spesso ci fa perdere la dimensione delle ragioni di quella identità, la quale, come suggerivo, di volta in volta si guadagna sul terreno di confronti che non sempre vengono esauriti risalendo una catena di citazioni. Una conseguenza eclatante del metodo storiografico adottato dalla maggior parte degli autori del volume e delle scelte cui quel metodo porta, è l'incredibile omissione (questa volta non per incompetenze linguistiche) di Mary Hesse, filosofa importante e influente che mi sembra difficile non includere tra gli analitici. Insieme a lei mancano clamorosamente nel volume tutte le aree tematiche cui la storica e filosofa di Cambridge ha dato contributi fondamentali: la filosofia della religione, la filosofia della scienza postempirista, la rinascita della retorica, una certa tradizione "eretica" di "storia-e-filosofia della scienza" che da Cambridge approda oggi a Chicago, a Parigi, al Wissenschaftscolleg di Berlino. E questo forse perché la Hesse è poco citata nella "scolastica" analitica, e perché, con i suoi riferimenti ai "francofortesi", al tomismo, all'epistemologia storica, all'ermeneutica, devia dal mainstream, troppo acriticamente dato per scontato, che va da Moore a Dummett. Ed è appunto questo che ci deve far riflettere sul fatto che, forse, la filosofia analitica è di più di quella canonicamente considerata; oppure non è, ed è solo filosofia (ma anche questo ce lo direbbe soltanto una storia meno pregiudizialmente compressa).

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