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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2014 alle ore 08:14.

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«Lo so. Oggi il mondo non ha una buona percezione dell'Onu. La gente vede solo quello che le Nazioni Unite non fanno in Iraq, in Siria, in Afghanistan, cioè il 10% delle loro attività. Per questo stiamo lavorando a un progetto di cambiamento d'immagine che toccherà tutti i Paesi partendo da 20 Stati donatori. L'obiettivo è far capire l'importanza di quanto accade qui»: Michael Mo/ller, 62 anni, è il direttore generale dell'Onu a Ginevra, la sede principale dopo quella di New York, ma per numero di dipendenti (10mila) più grossa di quella americana.
Il suo ufficio è all'interno di una vera e propria cittadella, costituita da 34 tra organizzazioni, istituti e programmi operativi, e sette agenzie specializzate (tra cui l'Oms, l'Alto Commissario per i Rifugiati, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni): «Se si considera che il mondo accademico, del business, della formazione, e 350 Ong hanno base a Ginevra, si può capire il valore aggiunto che deriva dall'avere tutti gli attori sul territorio: un sistema integrato che rafforza e valorizza il lavoro dei singoli. Questo spesso si dimentica». Il direttore generale fa gli esempi della collaborazione tra Oms e Unicef sul fronte dei vaccini forniti a due milioni di bambini in Pakistan, Nigeria e Siria in piena guerra, o della standardizzazione della nostra vita quotidiana, «quelle norme che riteniamo scontate ma che si decidono qui, al secondo piano, per esempio le caratteristiche della segnaletica dei trasporti, o quelle dei seggiolini dei bambini per le auto». Un esempio effettivo di come entrino in azione più attori è quello delle emergenze umanitarie. A Ginevra, un luogo strategico dal punto di vista del fuso orario – simile a quello dei Paesi che devono ricevere assistenza come Siria, Sudan, Somalia – c'è il personale qualificato, avviene lo stoccaggio degli aiuti (acqua, cibo, tende, taniche, zanzariere oltre naturalmente alle medicine) e c'è l'aeroporto. Un incrocio virtuoso, che funziona sotto l'egida dell'Ocha (l'ufficio per il coordinamento degli affari umanitari).
Eppure non si può fare a meno di pensare a quel 10% che l'Onu non riesce a fare, di cui lo stesso Mo/ller è consapevole. A proposito di Ebola, per esempio, l'epidemia di febbre emorragica divampata nell'Africa occidentale, ferocemente contagiosa e che ha già ucciso quasi 3.100 persone, l'Onu si è mossa inspiegabilmente tardi. «È vero – ammette Mo/ller – l'abbiamo sottovalutata. Innanzitutto c'è stata un'incapacità di comunicare con la popolazione. Ignoranza e paura provocano reazioni fuori controllo della gente e questo non aiuta. Poi va detto che i Paesi hanno tagliato troppo. L'Oms non risponde in modo veloce ed efficiente perché non ha abbastanza risorse. E questa epidemia non sarà l'ultima». Si ferma un attimo, e puntualizza: «I Paesi membri hanno contribuito con un totale di 22 miliardi di dollari alle azioni umanitarie: allora non è che i fondi non ci siano, dobbiamo però ripensare le priorità. E la prima delle priorità deve essere la prevenzione, solo così si punta davvero su salute e sviluppo». Intanto la coordinazione del sistema interno, per quel che riguarda Ebola, è stata rafforzata: il Consiglio di Sicurezza ha disposto la creazione di una missione speciale (Unmeer) la cui task force si è insediata ad Accra, in Ghana, per operare negli Stati colpiti, Guinea, Liberia e Sierra Leone (ma sono stati registrati dei casi anche in Nigeria e Senegal), mentre da Ginevra l'inviato speciale di Ban Ki-moon, David Nabarro, gestisce l'azione internazionale. «L'Oms ha stimato che si potrebbe arrivare a 20mila persone contagiate entro novembre – aggiunge Mo/ller – e ha calcolato che ci vogliono dai 9 ai 12 mesi per avere il controllo del problema. D'altra parte ricordiamoci anche dell'altra faccia della medaglia: se non ci fosse l'Onu oggi, con l'esperienza e la specializzazione che ha accumulato, che cosa succederebbe?».
Il direttore generale tiene però a sottolineare il ruolo di Ginevra anche su un altro fronte, quello della diplomazia multilaterale. «I rappresentanti di Iran, Siria, Ucraina, Georgia vengono a parlare qui, le discussioni si svolgono in questa sede perché Ginevra ha un'immagine di neutralità, i protagonisti internazionali hanno la percezione di un posto rassicurante in cui poter affrontare problemi delicati. Un esempio è il dialogo tra Nigeria e Camerun che hanno risolto una disputa territoriale su aree ricche di petrolio. È stato, questo, uno dei tanti risultati che otteniamo nel silenzio: quando conseguiamo un successo, spesso non se ne parla, ed è giusto che sia così. Altre volte gli obiettivi si raggiungono preventivamente». Ci sono invece delle situazioni in cui l'Onu non può che portare un contributo operativo, prezioso ma non risolutivo, come nel caso dei rifugiati siriani. Un dramma di cui non si intravvede la fine. «Quest'anno abbiamo toccato in totale 52 milioni di profughi nel mondo. È il più grande numero della storia e ne vediamo gli effetti. Paesi come Libano o Giordania stanno crollando sotto il peso sociale e ambientale delle masse che si sono riversate nei loro territori. L'Onu fa quel che può, l'Alto Commissario per i rifugiati lavora molto per sensibilizzare gli Stati e sollecitarne la solidarietà, ma c'è una sorta di "stanchezza" umanitaria data dall'eccesso delle emergenze. In Libano ci sono più di un milione e mezzo di profughi, un terzo della popolazione. Sa quante sono state le offerte di accoglienza da parte degli altri Paesi, che abbiamo più e più volte chiesto? Quattromila».

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