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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2014 alle ore 08:34.

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Il problema della moda italiana non sono le tasse. Il problema della moda italiana non sono le infrastrutture. Il problema della moda italiana non è l'inefficienza della pubblica amministrazione. Il problema della moda italiana è la depressione italiana. Come si fa a vendere al mondo il sogno di un luogo abitato dalla leggerezza e dall'eleganza se quello si è progressivamente trasformato nel suo esatto contrario: un Paese sempre più impaurito e cattivo, nel quale la gente si impoverisce e l'ultima festa divertente risale al 1987? Va bene attingere alle foto ingiallite della Dolce vita. Va bene Roma, Venezia, Firenze e Capri. Va bene il calzolaio amorevole nella sua bottega che impiega una settimana a confezionare un paio di scarpe degno di Lord Byron. Ma prima o poi bisognerà pur fare i conti con la realtà: qui la gente non si diverte più da un pezzo. E l'ingrediente segreto del Made in Italy è sempre stato quello: il buonumore degli italiani. Lo ha raccontato bene la recentissima mostra consacrata dal Victoria and Albert Museum di Londra al Glamour of Italian Fashion.

Alla radice di tutto c'è, come sempre, il savoir faire degli artigiani, dei tessitori e delle sarte che affonda le sue radici nella civiltà del Rinascimento (avete presente i vestiti delle dame negli affreschi del Ghirlandaio?). Su questa base si è poi innestata una struttura produttiva unica al mondo per qualità e varietà. Ma la scintilla – quella che ha messo in orbita tutti questi talenti e sforzi secolari facendoli penetrare nei sogni delle segretarie di Chattanooga e di Yokohama – è stata, per l'appunto, il glamour. A priori, dice la curatrice del V&A, l'Italia povera, semidistrutta e semianalfabeta del Secondo dopoguerra non sembrava proprio il luogo d'origine ideale per un settore fondato sull'opulenza. Ma lì è subentrato il talento di alcuni personaggi ai quali la mostra londinese rende omaggio. Ad esempio Simonetta Colonna di Cesarò che nel 1946, in mancanza di materiali nobili, assembla la prima collezione riciclando grembiuli e uniformi della sua folta schiera di domestici, conquista gli scaffali di Bergdorf Goodman a New York e viene ribattezzata «la contessa del glamour» da Harper's Bazaar. O Giovanni Battista Giorgini che, all'inizio degli anni 50, attira i grandi buyers americani a Firenze con le sfilate nella Sala Bianca di Palazzo Pitti e i balli in maschera a Palazzo Vecchio (tema: le nozze di Eleonora de' Medici e Vincenzo Gonzaga, celebrate negli stessi ambienti il 29 aprile 1584). O il favoloso Emilio Pucci che inizia a disegnare vestiti per gli amici sulle piste di sci e finisce con l'inventare l'uniforme di tutti i bon vivants cosmopoliti degli anni 50 e 60. In pratica, il cristallo originario della moda italiana del Dopoguerra è costituito da uno strano amalgama di artigiani, di aristocratici, di venditori che non si limitano a offrire prodotti di qualità, ma li rivestono di cultura, di leggerezza e di savoir vivre. Le prime ad accorgersene sono le stelle di Hollywood e le principesse di Park Avenue che iniziano a fare a gara per accaparrarsi le ultime creazioni delle Sorelle Fontana o di Mila Schön. E dietro a loro come sempre le orde innumerevoli di fan, imitatori e aspiranti. Tutti attratti, più o meno consapevolmente, dal sogno delle Vacanze romane di Audrey Hepburn, da Ava Gardner a spasso per la Riviera ligure, fino all'apoteosi della Dolce vita.

Alle spalle di tutto questo, però, c'è un Paese che cresce e che si diverte. Work hard and party hard è uno slogan che in quel tempo si applica agli italiani. Dalla noia uniforme dei suburbs alla Richard Yates, le coppie di Manchester e di Pittsburgh iniziano a percepire l'esistenza di un luogo incantato, dove la luce è un po' più intensa che altrove e tutti sembrano appena usciti da un set di Cinecittà. Non è più l'Italia povera ma orgogliosa del Neorealismo. È una via diversa alla modernità, come racconta entusiasta un articolo dell'Observer del 1955: «Milano, la città più moderna del mondo, è la cosa più italiana d'Italia». Aggirandosi tra i grattacieli e la nuova Galleria d'Arte moderna, il giornalista sbalordito racconta una città infusa della verve che Londra e Parigi (a suo avviso) hanno perduto. «Ciò non deriva dalla storia, ma dalla consapevolezza che anche ora è storia. Se Milano è ricca non lo è perché è moderna, giacché siamo tutti moderni oggi, ma perché vive e costruisce con la gioia e l'orgoglio col quale gli antichi italiani costruivano le loro torri e i loro palazzi in una tradizione che non è apparato, sentimento o stile, ma volontà di rimodellare un'antica cultura in una forma nuova: per esperienza, per istinto, per vita, non per nostalgia». A mezzo secolo di distanza, difficile trovare una definizione migliore del sogno italiano degli anni 50 e 60. Non un fenomeno di élite, ma di massa: l'orgoglio di avere qualcosa da dire al mondo, e l'intelligenza di farlo senza prendersi troppo sul serio. Come il set della Dolce vita dove, scrive Tullio Kezich, «tirava sempre l'aria di non fare un accidente, di sfuggire agli impegni, di bruciare il padiglione. Eppure si lavorava, se questa è la parola, fino a veder spuntare l'alba».
Olio di gomito e sprezzatura, passioni irregolari e produzioni millimetriche, il grattacielo Pirelli e il Parco dei Principi di Sorrento: bene o male, il mito della modernità italiana – del quale la moda è una componente essenziale – è dilagato nel mondo. Ha resistito agli anni di piombo (che hanno a loro volta prodotto una propria sinistra forma di glamour, come dimostrano i Lanciafiamme di Rachel Kushner). Si è accomodato nella Milano da bere, che ha imposto nuovi protagonisti e nuovi riti. Ha superato perfino i tristi anni 90 per scavallare nel nuovo secolo. Oggi, però, dopo vent'anni di crescita zero e di depressione mentale ancor più che economica, ad alimentarlo sono rimasti davvero in pochi.

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