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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2014 alle ore 08:38.

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Slut-Shaming
Cinque anni fa, al liceo, avevo una mini faida con una ragazza di un'altra scuola, Priscilla. Era iniziata perché Priscilla a un certo punto ce l'aveva con una delle mie amiche e quindi odiava anche me. Non ci conoscevamo personalmente, e mi scrisse un messaggio di insulti su Facebook davvero poco volgare, in cui mi chiamava qualcosa come «zecca barbona». Aveva pure ragione: io ero una zecca.

Priscilla invece portava borse molto firmate e vestitini molto succinti. E i tacchi. I tacchi a scuola. La mia superiorità morale era innegabile. Quindi la mia vendetta sarebbe stata far sapere a tutti che Priscilla era una gran troia. Chiamai una del suo liceo privato, che si incaricò di mettere in giro una voce semi-credibile secondo cui Priscilla si sarebbe prestata ad atti sessuali degradanti con un giovanotto noto per avere gusti bizzarri. Ero molto soddisfatta di me. Mi sentivo a metà strada tra Margherita, la tipa ribelle di Caterina va in città di Virzì, che si azzuffa con le pischelle dei Parioli, e Janis di Mean Girls, la sfigata vestita di nero che architetta cattiverie inutilmente elaborate e terribilmente banali contro le sciacquette vestite di rosa.

Avanti quattro anni. Esco dalla facoltà dopo un esame, un compagno di università mi indica Priscilla. «Quella è una che andava alla scuola privata X – mi fa –. Lo sai cosa si è fatta fare?». E mi sento raccontare la mia stessa squallida bugia, con qualche dettaglio improbabile in più. Raramente mi sono vergognata tanto. Evidentemente, all'epoca, altri adolescenti rosiconi non aspettavano altro che un motivo per chiamarla troia, perché era figa e lo sapeva, e le piacevano le scarpe e le borse. La cosa giusta da fare sarebbe stata dire: «Ehi, no! Quella è un'assurda panzana che io e le mie stupide amiche abbiamo messo in giro anni fa, non so se Priscilla abbia mai fatto niente del genere, e se l'avesse fatto buon per lei, non vorrebbe dire niente e comunque non sono affari nostri». Invece sono rimasta muta a riflettere sulla nuova, desolante realizzazione: nei miei anni di wannabe rebel dai capelli verdi ero una piccola bigotta misogina con una fantasia limitata. Ero, a diversi livelli di consapevolezza, convinta che le ragazze si dividessero in quelle sveglie, come me, e quelle a cui piacevano le cose superficiali da femmine. Io Daria Morgendoffer, tu Jane. Che questo sistema non avesse senso l'ho capito quando ho avuto accesso a un mondo di ragazze che riflettevano su queste cose, ragazze che si chiedevano perché cavolo a un certo punto della nostra vita abbiamo sentito il bisogno di investire tempo ed energie nell'odiare le nostre Priscilla. E in quel mondo le ragazze erano femministe. F.F.

Soggetti irritanti
«Ho esitato a lungo prima di scrivere un libro sulla donna. Il soggetto è irritante, soprattutto per le donne; e non è nuovo. Il problema del femminismo ha fatto versare abbastanza inchiostro, ora è pressoché esaurito: non parliamone più. Tuttavia se ne parla ancora», diceva già Simone de Beauvoir nel suo Il secondo sesso del 1949. Ancora adesso, a uscirsene col femminismo, si trovano tanti interlocutori che strabuzzano gli occhi («mi state dicendo che delle ragazze nel 2014 si dicono femministe?»), o che li alzano al cielo stufi («voi e l'ossessione per il femminicidio, voi e le quote rosa»). E allora, perché ce ne usciamo col femminismo? Perché dai femminismi di oggi, dai loro libri, fanzine, collettivi, corsi di studi di genere, Tumblr, Instagram, abbiamo preso moltissimo. F.F.+C.G.

Girl hate!
Prima di tutto, abbiamo preso delle parole, spesso inglesi, utili e contagiose, da appiccicare a quello che vedevamo. Se le avessimo avute al liceo, avremmo per esempio potuto dire che Francesca aveva messo in circolazione una notizia falsa facendo leva sulla tendenza delle persone a fare slut-shaming, cioè sanzionare la sessualità di una ragazza come deviante, eccessiva, ogniqualvolta questa si discosti dalle aspettative dell'ambiente. Allora non le avevamo queste parole, ma le avevo lo scorso inverno, quando ho fatto uno stage in un posto in cui chi aveva la partita Iva non era pagato da mesi e chi era inquadrato come dipendente era sottopagato, e chi faceva lo stage quando veniva pagato riceveva solo un rimborso spese. Poche ore dopo il mio arrivo nell'ufficio, un uomo si è affrettato a riferire a una ragazza china su un computer, indicandomi: «Lei è parecchio sveglia, attenta eh». Si trova sempre qualcuno pronto a ribadire che, siccome avete entrambe una vagina, siete in competizione (e quindi non metterete a rischio lui). «Ma come mai le ragazze sono così stronze fra loro?», si chiede a volte qualcuno: ecco, l'odio che si crea spesso fra ragazze, apparentemente spontaneamente, in realtà perché sono abituate a vedersi reciprocamente come minaccia solo in quanto donne, si chiama girl hate. Come suona bene l'inglese. Ho sorriso alla ragazza che già mi guardava di traverso e ho detto a lui: «Sai che quello che hai appena fatto viene chiamato istigazione al girl hate?».

Un po' per scherzo un po' no, nel giro di qualche settimana nell'ufficio hanno incominciato a risuonare le parole che avevo letto sui Tumblr delle ragazzine americane, che a loro volta le avevano estratte più o meno rigorosamente dai testi di teoria femminista. Poteva capitare allora che un uomo si chiedesse: «Vabbè, questo per esempio sarebbe mansplaining?», facendo riferimento al termine nato dalla composizione di man ed explaining, cioè la tendenza di certi uomini a dare per scontato di saperne più della propria interlocutrice su un dato argomento, e ad insistere nello spiegarglielo – un curioso distillato di ingenuità e supponenza che non fa mai sorgere in certi individui il dubbio di rendersi ridicoli. «Che dici, stamo a fa' double standard? Però te pare che quella va in giro conciata così, curate ‘npochetto...», si domandavano a volte i film-maker, che non avevano mai da ridire su come gli uomini si vestivano per le riprese, dopo avermi sentito protestare perché per accedere agli stessi spazi o svolgere funzioni analoghe, sulle donne erano riversate aspettative diverse – per esempio, come in questo caso, di una cura maggiore dell'aspetto fisico. (Alla fine dello stage non mi hanno pagata). C.G.

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