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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2014 alle ore 08:38.

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La rubascope
Certo, il potere liberatore dei concetti arriva fino ad un certo punto: perché alcune cose hanno cause strutturali, e perché certe abitudini sono consolidate. Avevo tredici anni quando, ospite di una famiglia inglese per una vacanza-studio, mi sono accorta che l'amico con cui ero partita non sapeva lavare i piatti: non aveva sviluppato la manualità per spingere la spugnetta con una certa pressione nell'incavo del piatto e poi intorno all'orlo, e non gli veniva nemmeno in mente di aprire l'acqua calda. Non mi ricordo perché non usassimo la lavastoviglie: non mi stupirei se uscisse fuori che era stata una mia idea, «per non dare un incomodo ai padroni di casa». Crescendo, la paranoia di «non incomodare» è cresciuta, molto di più della pretesa che gli uomini imparassero i fondamentali dei lavori domestici. Si lasciava una casa di campagna, si chiudevano le porte di una casa al mare: dopo che ciascuno aveva riarrotolato il proprio sacco a pelo, io e le altre ragazze ci fiondavamo ad afferrare i secchi dell'immondizia, le spugne, i detersivi per pavimenti, mentre i nostri amici stavano ancora chiudendo gli zaini. Sì, c'era qualcuna che faceva ai ragazzi: «Volete rendervi utili? Spostate il tavolo, su», e magari ancora qualcun'altra che si stava accendendo una sigaretta in balcone. Ma quelle di noi cresciute a farci dire “brava” ignoravano tutti e si dirigevano leste verso la scopa, l'oggetto prezioso che garantisce qualcosa da fare per tempo indeterminato: quello per essere più utili, e non rischiare di finire con le mani in mano. È così che alcune di noi sono state per anni delle Rubascope, alla ricerca di un piedistallo morale sui pavimenti spazzati, pur essendo spesso a casa troppo pigre anche per rifarsi il letto. C.G.

Sesso
Erano sempre femministe le persone che ci hanno dato le parole per guardare con più chiarezza il nostro corpo, il sesso, e i nostri diritti in materia di riproduzione. Erano femministe quelle che avevano scritto la nuova edizione di Our bodies, Ourselves, storico libro che avevamo divorato, dedicato al corpo e alla salute delle donne, e le prime a chiamare l'imene «corona vaginale», un tessuto che si allarga e non una parete che si rompe, quando ancora le nostre ginecologhe ipotizzavano: «Forse la prima volta non hai sanguinato perché ti sei rotta l'imene andando in bicicletta».Da ragazzina, ho fatto educazione sessuale a scuola due volte. Consisteva in una ginecologa e uno psicologo che ci raccomandavano di fare sempre sesso protetto. Perché nessuna delle riviste che avevo letto, nessuno dei libri usava parole come comunicazione e consenso? Se c'era una cosa di cui né io né il mio fidanzatino del ginnasio avevamo bisogno era che io facessi il test «qual è il luogo ideale per la tua prima volta» (una soffitta? Io non l'ho mai neanche vista una soffitta); ci sarebbe servito più qualcosa tipo i video su YouTube di Laci Green. Green, giovane femminista, ha per esempio un video in cui descrive esattamente come aprire dei canali di comunicazione con il partner prima e durante un rapporto sessuale.

Già: un rivoluzionario concetto con cui sono venuta in contatto solo quando ho iniziato a leggere blog di giovani femministe è che la persona che meglio di tutte sa cosa voglio e cosa non voglio sono io, e che per quanto mi piacerebbe avere un amante che mi legga nella mente, difficilmente succederà, quindi tanto vale sedersi e parlare, di cose che hai fatto e cose che vorresti fare. A chi sembrano cose che vanno da sé, tenga presente che l'inverno passato un tizio mi ha fatto un elenco di cose «poco romantiche» che facevo e che a volte gli impedivano di essere a proprio agio con me, la quale includeva: non farmi offrire il biglietto per una mostra; lavarmi i denti nel suo bagno; avere dei preservativi miei; parlare di sesso prima di fare sesso, dopo averlo fatto, insomma parlare di sesso in generale. F.F.

Una volta ho avuto bisogno della ricetta della pillola del giorno dopo. Era domenica mattina. Avevo letto parecchi articoli sulla difficoltà di reperirla, specie durante il fine settimana, negli ospedali romani: pare che i medici rifiutino la ricetta dichiarandosi obiettori, nonostante la legge non preveda che la ricetta della pillola del giorno dopo si possa rifiutare; quindi, per non perdere tempo, ho chiamato direttamente l'associazione di volontarie Vita di donna. Poco dopo mi trovavo a bussare timidamente alla porta aperta della casa della loro ginecologa di turno, cosa che ha fatto levare dall'interno una voce amareggiata ma benevola: «Ma cosa esitate tutte quante? Di che vi vergognate? Abbiamo fatto il Sessantotto per niente?» (Non era uno scherzo: i miei diritti riproduttivi erano ancora fragilissimi, e tenacemente presidiati da femministe sessantottine). C.G.

Disturbi alimentari
Quando ho rivisto dopo un po' di anni un ragazzo con cui ero stata al liceo, ad un certo punto lui mi ha chiesto: «Ma perché non ti sei lasciata portare giù in bici quel pomeriggio a Villa Borghese in cui io insistevo?». Allora pensavo di essere pesantissima, e avevo paura che pedalando se ne accorgesse. «Avevo un problema, l'ho capito solo dopo», gli ho risposto. Avevo un disturbo alimentare, e l'ho capito solo dopo, dopo che ci eravamo lasciati ma anche dopo che il disturbo se n'era andato. L'ho capito leggendo Rookiemag, rivista online fondata dalla giovane fashion blogger Tavi Gevinson con l'idea di dare alle ragazze qualcosa di intelligente e femminista come era stato un tempo il magazine Sassy. Per Rookiemag scrivono una schiera di ragazze e giovani donne che l'hanno reso un posto accogliente, in cui capita che chi scrive di musica, di libri e di film poi firmi anche un pezzo sulla propria relazione aperta, o su come è stato crescere in una famiglia a bassissimo reddito, o dei suoi periodi di ossessione per il conteggio di calorie e di terrore del dover indossare il bikini. Negli scritti femministi quello dei disturbi alimentari è un tema che torna spesso, a cui vengono dedicati dei capitoli: esempi recentissimi, Bad Feminist di Roxanne Gay e Unspeakable Things di Laurie Penny. Se, come ricordano anche queste scrittrici, questi disturbi sono il sintomo di altri problemi più profondi, è anche vero che se come a me ti capita di superarli grazie a una misteriosa capriola della psiche e non con la terapia, in mancanza di un discorso pubblico pacato e continuo sul tema si può perfino ignorare di avuto un problema. C.G.

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