Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2014 alle ore 08:15.

My24

Nelle pagine introduttive di On Politics (Allen Lane, Londra 2012), una monumentale (più di mille pagine) storia del pensiero politico da Erodoto al presente, Alan Ryan confessa che, dopo una vita trascorsa studiando la politica, ne è ancora affascinato, sebbene sia costretto a riconoscere di aver maturato un profondo scetticismo nei confronti del modo in cui oggi si parla dei fenomeni e delle istituzioni politiche. Secondo Ryan, molte delle parole e delle espressioni che governi, commentatori e cittadini comuni impiegano per discutere di politica hanno ben poca sostanza. Alcune forse avevano un senso in passato, ma l'hanno perso quasi del tutto.
Riflettendo sul dibattito che si è scatenato sulle "riforme" proposte dal governo Renzi, verrebbe la tentazione di dare ragione allo studioso britannico. La parola "riforma" acquista un ruolo importante nel lessico politico europeo nell'Ottocento, quando se ne afferma l'uso per presentare – e implicitamente difendere, grazie al sottinteso riferimento religioso – provvedimenti legislativi che correggono diseguaglianze che appaiono ingiustificabili all'opinione pubblica. Esempi paradigmatici di "riforma" in questo senso sono i diversi "Reform Bill" (ovvero leggi di riforma) che nel corso del diciannovesimo secolo modificarono il sistema elettorale britannico per estendere la rappresentatività della camera bassa. A questo primo uso di "riforma", che si colloca concettualmente nello spazio ideale di contrapposizioni centrali del lessico politico, come quella tra eguaglianza e privilegio, o quella tra progresso e conservazione, se ne associa un altro, più recente, che emerge nel corso della storia del movimento operaio e socialista: in questo caso, la "riforma" è il metodo di cambiamento della società difeso da chi rifiuta la rivoluzione. Di conseguenza, "riformisti" saranno quei socialisti che credono nella possibilità di migliorare le condizioni degli svantaggiati senza ricorrere alla forza. Nel nostro Paese questo secondo senso associato all'uso della parola "riforma" ha avuto un grande rilievo nel dibattito politico a sinistra, dovuto all'ambigua natura del Partito Comunista Italiano, e alla lunga rivalità che questa formazione ebbe con i socialisti. Di quelle polemiche oggi rimane poco che non sia di esclusiva competenza degli storici. Tanto che si fatica a trovare un politico, di qualunque schieramento, che non rivendichi per sé la qualifica di riformista. Che dire del primo senso di "riforma"? Non c'è dubbio che esso sia ancora presente nel dibattito odierno. Quando un governo illustra all'opinione pubblica i propri programmi per quel che riguarda l'amministrazione pubblica, i rapporti di lavoro, la struttura del processo legislativo, l'istruzione o il funzionamento dei tribunali, essi sono immancabilmente presentati come "riforme". L'uso di questa espressione vuole suggerire, attraverso il rimando implicito alle grandi riforme del passato, che si tratta di provvedimenti di ampio respiro, il cui scopo è migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Sotto questo profilo, annunciare una "riforma" può essere visto come un modo per richiedere consenso.
L'uso della parola, tuttavia, non è sufficiente a garantire l'effetto desiderato. Specie se, come ammonisce lo stesso Ryan, si è diffuso un profondo scetticismo anche nei confronti delle motivazioni e delle capacità dei governanti. In effetti, da alcuni anni assistiamo nel nostro Paese a un fenomeno che sembra confermare le perplessità dello studioso britannico. A fronte di problemi seri e innegabili, si asserisce la necessità di "riforme" – provvedimenti strutturali e di ampio respiro – ma nella gran parte dei casi, dopo le inevitabili mediazioni tra interessi contrapposti, il risultato è qualcosa di più modesto. Ciò nonostante, le esigenze del consenso spingono i politici a continuare a usare l'espressione fino renderla sempre meno efficace sul piano retorico.
Una conseguenza spesso trascurata di questa irrazionalità del processo politico è stata messa in evidenza da Ines Marini, un magistrato che presiede i Tribunali di Crema e Cremona recentemente accorpati. La Marini la descrive come l'effetto della «tela di Penelope». Di cosa si tratta? Molte riforme in questo momento sono in realtà il risultato di un compromesso, non sempre ben riuscito, tra genuine aspirazioni di riforma – rendere un'istituzione più efficiente, più giusta, o entrambe le cose – e vincoli di bilancio. Per via dello stato dei conti pubblici, il secondo tipo di considerazioni ha acquistato un tale peso nell'ordine di priorità dei governi da essere dominante. Ciò finisce per produrre una straordinaria dispersione di esperienze, e costringe i decisori locali – per esempio, i responsabili degli uffici giudiziari – a compiere le proprie scelte in una situazione di incertezza relativamente alle risorse umane e finanziarie disponibili. Di qui, l'espressione «effetto tela di Penelope». Non ci vuole molto per rendersi conto che, in una situazione del genere, non solo risulta difficile cambiare le cose in meglio, ma non si riesce nemmeno a consolidare i risultati positivi conseguiti. Così può avvenire che una misura di "riforma" giustificata sulla base di considerazioni di efficienza, come l'accorpamento di due strutture, rischia di produrre un risultato negativo. Un risparmio contabile non genera necessariamente un impiego migliore del capitale (lo stesso discorso vale anche per altre istituzioni pubbliche, come una scuola, un'università, un ospedale o un carcere).

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi