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Questo articolo è stato pubblicato il 12 ottobre 2014 alle ore 08:13.

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Ho avuto la fortuna di conoscere, di incontrare, di dialogare spesso con Italo Alighiero Chiusano, finissimo germanista, traduttore di lingue diverse, romanziere, morto nel 1995. Anzi, fu lui stesso, alle soglie della morte quasi improvvisa, a chiedermi di stendere una prefazione alle sue Preghiere selvatiche (1994), un'opera che egli amava e che mi permise di perlustrare il lato mistico della sua fede cristiana, segnata da una spiritualità rocciosa, e quindi solida, ma ardua e frastagliata. Fu in quell'occasione che egli mi parlò a lungo della sua "compagnia" interiore con Teresa d'Avila, la straordinaria e originale mistica spagnola, di ascendenza giudaica (suo nonno era un ebreo "marrano", cioè convertito al cattolicesimo), di famiglia benestante, di intelligenza vivacissima e libera, di capacità operative impressionanti, di temperie energica e fin polemica e dall'esistenza travagliata. Non per nulla la santa è riuscita a conquistare anche una figura agnostica ma appassionata come Julia Kristeva che a lei ha dedicato un sorprendente e poderoso saggio emblematicamente intitolato Thérèse mon amour (2008). Anche in questo caso l'amicizia che mi lega alla filosofa francese di origine bulgara mi ha permesso di capire come la stella di Teresa possa accendersi anche nei cieli meno popolati di divinità.
Ma ritorniamo a Chiusano: egli mi descriveva l'esperienza da lui vissuta una decina d'anni prima, nel 1983, quando s'era imbarcato nell'impresa di tradurre El libro de su vida, l'autobiografia di s. Teresa – proclamata dottore della Chiesa nel 1970 da Paolo VI – un testo che, stando al colofon finale, «fu finito di scrivere nel giugno dell'anno 1562» (la santa aveva allora 47 anni), ma che in realtà fu poi ripreso, rivisto e aggiornato fino al 1565, per poi cadere nel 1575 sotto gli occhi severi e sospettosi degli Inquisitori di Cordoba. Ma era stato Cristo stesso a sussurrarle interiormente: «Non ti rattristare, figlia. È una cosa da nulla». Ed effettivamente persino il Grande Inquisitore, il cardinale di Toledo, la rassicurò: dall'esame critico l'opera era uscita approvata perché dotata di una «dottrina molto sicura, veritiera e proficua». Ma a buon conto, l'opera non fu restituita a Teresa e rimase negli archivi dell'Inquisizione, dai quali uscì solo nel 1587, quando la santa era già morta da cinque anni, per approdare – dopo l'edizione curata da un'altra figura alta della spiritualità e della letteratura spagnola, Fray Luis de León – nella biblioteca dell'Escorial per volere di Filippo II.
Ebbene, Chiusano aveva tradotto quel l'autobiografia con una sintonia e passione che è visibilissima attraverso due coordinate redazionali. La prima è la resa della lingua originale ovviamente marcata dalla tonalità dello stile del tempo e dall'impronta forte dell'autrice: il traduttore lo fa in modo geniale permettendo di assaporare – anche a chi ignora la matrice – la tonalità, la musicalità e talora l'arcaicità e l'asprezza di quel dettato. La seconda qualità dell'intervento di Chiusano è da cercare nella lunga introduzione, una cinquantina di pagine che si configurano come un vero e proprio saggio che parte dalla vicenda biografica storico-critica e approda alla bibliografia di Teresa d'Avila, passando attraverso uno schizzo efficace del suo carattere impetuoso, solare, sincero e potente. È, dunque, un vero e proprio ritratto della santa, più vicino all'originale di quanto si abbia nel complesso statuario del Bernini, collocato nella chiesa romana di S. Maria della Vittoria.
Quella del grande scultore è, infatti, una geniale interpretazione dell'analogia amorosa che pervade l'esperienza mistica (non per nulla i mistici usano spesso il linguaggio dell'eros per rendere effabile la loro vicenda ineffabile): i committenti, la famiglia Cornaro, contempla dalle nicchie Teresa abbandonata in un'estasi d'amore e trafitta dalla freccia divina che un angelo-Cupido le ha immesso nel cuore. Certo, la santa possedeva un'intensa passionalità che la conduceva all'unio mystica suprema, ma contemporaneamente in lei s'incrociava un rigore intellettuale tagliente e un realismo incisivo e attivo. Per questo giustamente Chiusano smitizza le ermeneutiche troppo "psicanalitiche" di una personalità e dei suoi scritti la cui incandescenza e trascendenza non possono essere compressi negli stampi freddi delle analisi psicologiche. È, dunque, benefico riproporre – come si è fatto con questa nuova edizione – sia l'autobiografia della santa sia l'icona disegnata dal suo curatore, con l'auspicio che i lettori si indirizzino poi verso i capolavori teresiani, come ad esempio, il mirabile Castello interiore.
Dicevamo che Teresa d'Avila intreccia in sé azione e contemplazione. Dopo tutto, lo stesso Gesù di Nazaret fu un operativo, tant'è vero che quasi la metà del racconto della sua vita pubblica secondo il più antico dei Vangeli, quello di Marco, è occupato da guarigioni di malati e di incontri con emarginati. Questo, però, non gli impediva di ritirarsi tutto solo a pregare su un monte. Come si spiega, allora, la scena narrata dall'evangelista Luca (10,38-42) in cui Marta è aspramente redarguita proprio da Gesù, suo ospite a tavola, perché si dedica esclusivamente al servizio a mensa, mentre la sorella Maria intrattiene il Maestro ascoltando le sue parole? A questo brano evangelico due teologhe, la canadese Pierrette Davian e la francese Élisabeth Parmentier, riservano un saggio veramente esemplare nel quale si assommano sia la lunga e travagliata storia dell'interpretazione sia la loro rigorosa e pertinente analisi testuale.

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