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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2014 alle ore 11:39.
L'ultima modifica è del 15 ottobre 2014 alle ore 11:50.

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Con la sua Storia della filosofia greca e romana Giovanni Reale ripropone per Bompiani, in una forma editoriale del tutto inedita, una revisione e un aggiornamento della sua classica Storia della filosofia antica (Vita e pensiero). Ottima l'idea di riproporla in dieci singoli volumi, uniti in cofanetto ma disponibili anche singolarmente a un prezzo contenuto: 9 euro l'uno. L'ipotesi enunciata nell'introduzione è assai forte: in Grecia è nato il pensiero filosofico, e non ci sono possibilità di ritrovarlo in nessun'altra civiltà. E l'atteggiamento speculativo, tipico dei greci, è frutto del dialogo. Oggi però l'atteggiamento dialogico potrebbe forse apparire in contrasto con quello speculativo, che tende a proporre teorie filosofiche in sé compiute?

«Direi di no - risponde Reale -, perché la “dialettica”, l'introduzione dell'”oralità dialettica”, sostituisce la precedente oralità che era “mimetico-poetica”, la ripetizione del poema in versi nel contesto di una cultura fatta per immagini e miti. I primi filosofi, quando hanno usato lo scritto, lo hanno fatto con pochi fogli di papiro su cui nasceva una discussione, il dialeghein: non un ripetere cose, ma il modo di arrivare alla determinazione di un concetto. Prendiamo Socrate. Uno dava una risposta a un certo problema e lui diceva “non basta quello che dici. Non potresti esprimermelo meglio?” E questo turbava moltissimo. Prima di allora bastava come risposta il verso di un poeta. Quando Socrate chiedeva “cos'è il bello?” e gli si rispondeva “una bella ragazza, un bell'uomo”, lui replicava: “no, non ti ho chiesto degli esempi, ma cos'è il bello”. Per arrivare a una determinazione del concetto, il dialogo è necessario».

La discussione era un vero e proprio costume per i greci, un costume filosofico che - come sostiene Pierre Hadot - era anche un modo di vivere. Secondo lei, proprio rispetto al dialogo, c'è una continuità fra la filosofia greca classica e quella delle “scuole” successive: stoici, scettici, ecc.? «Sì. All'interno delle scuole si coltivava il dialogo. E le varie scuole si confrontavano tra loro. Il caso più tipico di opposizione paradigmatica è quella fra epicurei e stoici».

Però mentre in Platone e Aristotele è più marcato l'atteggiamento speculativo, l'amore disinteressato per la conoscenza, invece per le “scuole” è l'aspetto etico ad assumere un'importanza decisiva: anche la logica, la fisica, la cosmologia ne sono subordinate. «Per il filosofo greco - aggiunge Reale - il problema di fondo era: come essere felice? L'eudaimonia è il motivo del suo impegno. Naturalmente l'eudaimonia è qualcosa di molto più forte ci ciò oggi si intende per felicità. Niente a che vedere col benessere. Per il greco, tu puoi essere felice se capisci il cosmo, se capisci chi sei e di conseguenza ti collochi in quel cosmo. Platone e Aristotele davano più peso concettuale alla struttura. Gli altri invece puntavano prevalentemente sull'effetto. Perché? Perché fino ad Aristotele c'era la polis, che per il greco era la struttura del vivere anche morale. Con Alessandro è stata distrutta la struttura in cui l'uomo greco viveva. C'è stato un ribaltamento di valori tale per cui andava tutto ricostruito. Per la prima volta la vita del singolo diventa emergente. Per Aristotele l'uomo è un animale politico. Non sei uomo se non sei nella polis. Poi al legame che una città stabilisce con gli uomini si sostituì il concetto di amicizia. É la dimensione soggettiva degli uomini che porta i problemi dell'individuo in primo piano. Fino ai primi del Novecento questo fatto spingeva ad avere una visione negativa di queste filosofie. Poi le cose sono cambiate. Io difendo anche Epicuro. La felicità per lui era assenza di dolore. Però diceva anche: “A colui a cui non basta ciò che è necessario, nulla mai basterà. E sarà un infelice”. Ciò indica la dinamica in cui si deve entrare per trovare la felicità».

In questo, in realtà, assomiglia molto agli stoici. «Certo. Gli stoici sono antitetici agli epicurei, ma dicono cose simili. Per esempio che ogni essere può essere felice anche dentro la più terribile macchina di tortura che un tiranno aveva inventato. La felicità in quest'ottica, non dipende dalle cose, ma dai rapporti in cui si pone nei confronti delle cose».

Questa idea della sopportazione paziente del dolore segna una continuità con il cristianesimo. Il concetto di eudaimonia, invece, non è in contrasto con esso? A contatto con il cristianesimo l'etica si allontana dall'eudaimonismo, come ha sostenuto Bentham fondando una forma di eudaimonismo molto diverso da quello degli antichi. «Diciamo che nella storia è cambiato anche il concetto di felicità - dice Reale -. Si è dimenticato che la felicità dipende da te, e non dalle cose. Felicità in greco si dice eudaimonia, deriva da eu-daimon, è felice colui a cui è toccato in sorte un buon demone. I presocratici rovesciano il punto di vista: il demone te lo scegli tu. Platone lo dice nella Repubblica: sei tu che scegli il tuo demone e la virtù non ha padroni. E non è difficile trovare alcune convergenze con il cristianesimo. Il concetto di felicità così come i greci lo hanno determinato è: tu sei felice se riesci a essere te stesso. Tutta la storia del platonismo dice tu non sei te stesso se non ti metti in rapporto con Dio».

Dunque, in che modo oggi possiamo dialogare con i classici del pensiero greco? «Oggi la filosofia si sta distruggendo con una formula di autofagia. Si ritira in una sorta di metalivello, indaga solo le caratteristiche formali facendo astrazione dal loro contesto. Invece con i greci la filosofia si chiedeva: come devi vivere per vivere bene».

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