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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2014 alle ore 18:10.
L'ultima modifica è del 19 ottobre 2014 alle ore 18:19.

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San Gerolamo, 1610, Roma Galleria NazionaleSan Gerolamo, 1610, Roma Galleria Nazionale

Molti dei suoi discepoli, dopo averlo ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù ha appena concluso – secondo il Vangelo di Giovanni (6,60) – uno sconcertante discorso nella sinagoga di Cafarnao che s'affaccia sul lago di Tiberiade e la reazione della folla ma anche degli intimi, i discepoli, è aspra: nell'originale greco l'aggettivo “duro” è sklerós, quelle di Cristo sono state parole “sclerotiche”, incomprensibili, recalcitranti a ogni intelligenza normale.

La replica del Maestro sarà altrettanto netta e inappellabile: «Questo vi scandalizza?». Il verbo italiano ricalca quello greco, skandalízei: esso letteralmente rimanda allo skándalon, ossia alla pietra d'inciampo che fa incespicare e cadere una persona che avanza su un viottolo accidentato.
Ebbene, come comprendere il senso genuino di molti passi biblici lasciandolo intatto nel suo valore anche provocatorio, senza edulcorarlo per convenienza ma anche senza inciampare “scandalizzandosi”? È proprio per questo che fin dalle origini sono sorte due guide alle quali ora corrispondono altrettante discipline critiche: da un lato, l'esegesi, termine di matrice greca che suppone un “condurre dentro” (eis-hegéomai) il lettore nel testo, nel suo dettato e nel suo contenuto, e d'altro lato, l'ermeneutica che evoca il dio greco Hermes, l'interprete degli oracoli divini, e quindi designa l'arte di svelare il significato originario di un testo e di renderlo attuale. In pratica si ha un duplice movimento, centripeto il primo, perché ci rimanda al nucleo genetico del testo, centrifugo il secondo perché dal centro testuale ci riporta alla periferia del presente in cui il testo risuona e vive.

Questa premessa metodologica ha una sua esemplificazione concreta – oltre che nell'immensa bibliografia esegetica ed ermeneutica di taglio scientifico – in uno strumento globale dallo spettro più divulgativo (ma non per questo approssimativo e impreciso) che è stato recentemente proposto in versione italiana. La sua genesi è francofona ed ecumenica perché i diciotto studiosi coinvolti appartengono a Francia, Svizzera, Belgio e Québec e le loro confessioni sono la cattolica e la protestante. Parlavamo di sussidio “globale” perché il commentario si allarga all'intero arco dei ventisette “libri” che compongono il Nuovo Testamento. Il tutto in un unico tomo che, oltre a offrire ovviamente l'intero testo delle Scritture cristiane, che nell'originale greco sono composte di 138.020 parole, comprende anche il commento sul quale vogliamo ora soffermarci. Il primo movimento da eseguire, come si diceva, è quello di risalire alla matrice, ossia al testo originario che non è un aerolito piombato dal cielo ma che è germogliato da un seme (per il cristiano, di origine trascendente e divina) deposto in un terreno storico-geografico determinato. Ecco perché è necessario eseguire un'operazione storico-critica che identifichi le coordinate temporali, spaziali, culturali, letterarie, religiose, sociali genetiche del testo stesso. In questa linea vanno certamente i commenti delle singole unità redazionali. Sì, perché – come ha insegnato una vera e propria metodologia esegetica denominata pomposamente Redaktionsgeschichte, nel tedesco che un tempo era la lingua-principe della scienza biblica, ossia “storia della redazione” – gli evangelisti (e non solo Paolo con le sue Lettere) sono in senso stretto autori che hanno “redatto” con una propria originalità i dati di Gesù e su Gesù ricevuti dalla tradizione o vissuti in prima persona.

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