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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2014 alle ore 08:10.

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Ho quasi quarant'anni. Trentanove, per essere precisi: nel 2015, quindi fra poco, il prossimo maggio, ne avrò quaranta. Lo dico perché mi piacciono gli auguri di compleanno, e perché sono ancora in contatto con i compagni di liceo che potrebbero sbugiardarmi se fingessi di essere più giovane.

È inequivocabilmente un'età considerevole (avevo quindici anni quando i miei genitori ne avevano quaranta e mi chiedevo perché si affannassero tanto a litigare essendo così anziani, non potevano semplicemente tenersi compagnia lungo il viale del tramonto, prepararmi una torta, guardarmi con benevolenza mentre volavo via?), ma non è più un'età adulta. Mi guardo intorno sulla metropolitana, mentre sento suonare la notifica di Whatsapp e decine di mani schizzano nella borsa o nelle tasche per controllare se il telefono è il loro (una signora verso i sessant'anni sorride allo schermo e si scatta una foto con le dita che fanno il segno della vittoria), e vedo pochissimi veri adulti, me compresa.

Mi è capitato recentemente di parlare di due libri insieme, e di capire che lo stavo facendo in modo sbagliato: Merci pour ce moment, di Valérie Trierweiler (l'ex compagna di François Hollande che ha deciso di rovinargli la vita raccontando il tradimento e l'abbandono del presidente della Repubblica francese) e Non sono quel tipo di ragazza di Lena Dunham (la ventottenne creatrice di Girls, che in questo libro di formazione dà consigli alle ragazze, partendo da sé). Valérie Trierweiler, madre di tre figli, giornalista, divorziata, vendicativa, è nata nel 1965, ha dieci anni più di me. Lena Dunham è del 1986, ha undici anni meno di me, non ha figli, vive con il suo fidanzato, passa un sacco di tempo con i genitori, può decidere di trascorrere l'intera giornata a letto con il burro di arachidi se si sente troppo depressa e grassa per affrontare il mondo. È una ragazza, insomma, e anche se è un genio non è ancora davvero adulta. E allora perché io mi sentivo automaticamente immersa nel mondo di Lena Dunham, perfino nella sua vita da college e mi sembrava invece di essere lontanissima, per età, dai disastri adulti di Valérie Trierweiler (Eliseo e manie di grandezza a parte?).

Nemmeno Valérie dimostrava, nelle sue memorie piene di rabbia e lacrime, molta maturità, sembrava più una sedicenne inferocita, ma la percezione di me stessa è andata comunque verso una ragazza cresciuta negli anni Novanta, che deve trovare velocemente qualcuno con cui perdere la verginità, così come ogni volta che rivedo Dirty Dancing non mi sfiora mai il pensiero di essere diventata, nel frattempo, la madre di Baby, oppure di dovermi identificare con la moglie annoiata (quarantenne) che paga Patrick Swayze per andare a letto con lei. Sono sempre Baby, che dice: «Ho portato un cocomero» e ha paura di fare il salto. Ma non si tratta di nostalgia, di ritorno col pensiero all'età dell'oro (non era un'età dell'oro essere adolescenti a Ferrara, o forse in qualunque altro posto, e non ho nessuno struggimento per i miei vent'anni e per le frasi di Jack Kerouac ritrovate sui miei diari di allora), è più l'idea di essere ancora là, per sempre là, per sempre non-ancora-adulti, con la possibilità di non diventare mai grandi (al massimo vecchi). Siamo tutti Baby, ne sono certa, e l'età adulta è semplicemente perduta, o almeno giovanilizzata.
Secondo A. O. Scott, che ha scritto sul New York Times Magazine un lungo articolo intitolato La morte dell'età adulta nella cultura americana, nel fare a pugni con l'autorità patriarcale abbiamo ucciso tutti gli adulti, allo stesso modo in cui faremo morire, alla fine di Mad Men, Don Draper, l'ultimo adulto (alcolizzato) rimasto nelle serie americane.

Non abbiamo più intenzione di crescere, di chiudere il cancello del parco giochi, e da qualche parte ci sarà sempre qualcuno che ci guarda con gli stessi occhi con cui Agnese Renzi fissava suo marito Matteo, presidente del Consiglio nato nel 1975, che indossava fiero i Google Glass, circondato da Sergey Brin e Larry Page, i fondatori di Google: era uno sguardo di condiscendenza, di sorridente rassegnazione al fatto che balleremo eternamente Time of my Life nella nostra immaginazione. Con la sensazione di ribellarci a qualcuno, forse, anche se non c'è più nessuno a cui disubbidire, perché gli adulti saremmo noi, in effetti, che chattiamo la notte, facciamo la coda per comprare l'iPhone 6, giochiamo a Candy Crush, carichiamo foto con la bocca a cuore su Instagram, usiamo Twitter come un tempo la Smemoranda, ci mettiamo le mollettine fra i capelli, giochiamo con gli smalti, con le biciclette, con i jeans strappati, con il Trono di spade e perfino con Harry Potter (nell'articolo di Scott si avverte il fastidio per tutta questa letteratura per ragazzi acquistata da quarantenni senza figli adolescenti).

Come il figlio di Michele Serra dovrebbe semplicemente tenere pulito il water, noi dovremmo semplicemente diventare grandi, smettere di giocare. Ma allora essere adulti significa questo? Non divertirsi più? Essere come Stoner, il protagonista dell'omonimo romanzo di John Williams (Fazi editore), colmo di serietà, di senso del dovere e del tragico, di folle capacità di sacrificio? Secondo Hannah Arendt abbiamo il dovere di portare i nostri figli nel mondo, e farlo con responsabilità e autorità (da genitori, da insegnanti), e invece ci sentiamo ancora come loro, emozionati perché è quasi sabato, rintronati per avere passato la notte a vedere sei puntate di fila di True Detective. Preoccupati che ci vogliano bene: non ci importa che seguano i nostri insegnamenti, o che si ribellino, purché ci trovino simpatici, dei tipi a posto. È questa la cultura dell'immaturità, dicono tutti: in Italia lo scrive da molti anni Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, raccontando il tramonto dei padri, la caduta simbolica della differenza generazionale.

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