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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2014 alle ore 08:10.

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La vita è strana. Dopo che siamo morti, a seconda della varietà di cose di cui ci siamo occupati, la nostra esistenza si può racchiudere in due o tre righe. Sufficienti per riassumerne i tratti essenziali. Poi, ovviamente, le tracce che spargiamo in giro, durante il nostro passaggio, sono infinitamente di più, e sono leggere e profonde, diritte e contraddittorie, visibili o presto invisibili. Quelli, in un certo senso, siamo davvero noi – più di quanto lo siamo nei momenti ufficiali.

Localizziamo il discorso nella musica, o nello show business più in generale. Dopo tanti decenni d'onorata carriera, il mondo dello spettacolo si è abituato a considerare la morte come sliding doors, utili ad alimentare il fattore-nostalgia e alimentare il ricambio. Esiste però un risvolto particolare, interessante da analizzare: il post mortem degli artisti. Che ha sviluppi imprevisti: nel caso di grandi celebrità, ad esempio, segue strade maniacali, alla ricerca di storie rimaste sconosciute, di particolari inediti, di canzoni nel cassetto, foto private, diari intimi. Sovente ci s'inerpica in territori strani, al confine tra la mitologia postmoderna e il culto della personalità – pensate agli avvistamenti e al trash fiorito sulla tomba di Elvis, dopo la sua malinconica dipartita. In altri casi, ancor più bizzarri, il post mortem acquisisce progressivamente un'importanza, un peso mediatico e un valore artistico di carriera, uguale o superiore a ciò che l'artista scomparso ha saputo combinare finché era in vita. Pensate a Jeff Buckley, a Janis Joplin, a Jimi, Kurt o Amy Winehouse. Si sono congedati in fretta, vittime della loro personalità, ma la loro leggenda, la popolarità e la circolazione della loro opera si è ingigantita col tempo, si è arricchita di nuovi materiali, ha preso la forma di un culto, che permette eccellenti risultati di marketing. Il post mortem di personaggi così, cinicamente parlando, è la prosecuzione della loro carriera in vita, tormentata quanto alimentata dal desiderio dei fans e dal recupero e la circolazione di un flusso ininterrotto di “novità”.

Poi esiste un terzo caso di “seconda vita”: da un punto di vista letterario e psicologico è il più emozionante, in quanto all'origine di inaspettate scoperte e successivi amori ossessivi. È il post mortem di alcuni artisti che in vita non ce l'hanno fatta, a dispetto della qualità della musica che componevano e cantavano. I fattori del fallimento possono essere stati tanti, dalla disattenzione del pubblico, alla pigrizia della critica, alla loro caratterialità. Personalità scomparse prima che il mondo s'accorgesse di loro, di solito con amarezza e disillusione, perché l'insuccesso non piace a nessuno, nemmeno agli spiriti delicati. Eppure per costoro il destino aveva in serbo un colpo di scena. L'ultima fermata del loro percorso, infatti, a dispetto della prematura dipartita, non è l'oblio e l'anonimato, bensì la celebrità, il culto, la venerazione di schiere sempre più numerose di ammiratori. Ecco che il post mortem, in questo caso, diviene parte predominante, più significativa e ricca di eventi della loro storia: è là che le cose hanno trovato la loro giusta dimensione, consegnandogli, seppure tardivamente, i meritati segni del riconoscimento e della celebrità. Due nomi: Nick Drake e Judee Sill. Praticamente coevi come periodo d'attività, inglese fino al midollo Nick, californiana Judee. Lei nasce nel '44, ha un'adolescenza difficile, finisce in galera, è una piccola prostituta drogata, non fosse che trova rifugio ed espressione nella forma più raffinata, tenue e delicata di composizione musicale, a cavallo tra folk e gospel, con una vocalità eterea e angelica, espressa sempre in totale solitudine, voce e chitarra, o pianoforte. È la prima artista contrattualizzata da David Geffen quando con la Asylum Records offre al mondo la meraviglia del suono West Coast. Ma contrariamente a tanti colleghi, Judee non vende e non riesce a stare a galla nello show business. Registra due album meravigliosi nel ‘71 e nel ‘73 (Judee Sill e Heart Food) poi, poco alla volta, torna alla deriva verso i suoi personali demoni, e conclude il passaggio terreno con un'overdose nel ‘79, a 35 anni, dimenticata da tutti e pianta da nessuno. Oggi è considerata il talento più cristallino, innovativo e misterioso espresso dalla canzone americana di quegli anni. Il suo post mortem prende le mosse negli anni Novanta, dopo un lungo letargo, e oggi è fatto di pubblicazioni di inediti, saggi critici (notevole l'omaggio che le dedica Barney Hoskins nel volume Hotel California) e dall'attribuzione di un valore iconico assoluto, che la consegna all'eternità.

La parabola di Nick Drake è ancora più straziante, ma anche elettrizzante: il 25 novembre si celebra il quarantesimo anniversario della sua morte, avvenuto a 26 anni, dopo che già da due anni aveva abbandonato la carriera artistica, rifugiandosi nella casa di campagna dei genitori, perseguitato da una fatale sindrome depressiva. Eppure, tra il ‘69 e il ‘72, Nick – prodotto da Joe Boyd, il pigmalione scelto da Chris Blackwell per assicurare alla Island Records i migliori talenti innovativi della scena brit – ha registrato tre precocissimi, luminosissimi capolavori (Five Leaves Left, Bryter Layter e Pink Moon), che a distanza di quasi mezzo secolo hanno l'arcano potere di sembrare del tutto contemporanei, oltre che assemblati col più struggente e formidabile dei canzonieri, capace di rinverdire una palpabile idea di romanticismo. Eppure Nick il solitario, l'introverso, il perfezionista taciturno, l'enigma vivente, non seppe sopravvivere a ciò che, a prima vista, difficilmente si potrebbe ipotizzare fosse il suo tormento: l'assenza di successo e riconoscimenti. Muore, per un probabile suicidio, addolorato e in compagnia dei suoi fantasmi.

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