Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2014 alle ore 08:41.

My24

Mio padre ascoltava Mozart. E roba jazz di cui non ricordo i dettagli, ma una volta mi portò a sentire Ray Charles e si offese moltissimo perché ero ben meno entusiasta di quanto lo fossi stata quella volta che avevo costretto mia madre a portarmi a vedere Miguel Bosé. Una (indimenticabile) eccezione, la volta di Miguel, giacché sono del Novecento: quel secolo in cui i genitori non accompagnavano i figli alle esibizioni tridimensionali dei poster delle loro camerette.

Un giorno nel suo studio comparve un vinile di cui, con orrore, riconobbi la copertina. Mio padre aveva comprato il disco di un vivente. (Sì, anche Ray Charles era vivente, ma quando mi portò a vederlo era chiaramente decrepito, per la me di allora. Aveva una cinquantina d'anni: quello che adesso considererei uno scapolo prestante).

Mi è tornato in mente perché quel cantante lì l'hanno imitato qualche tempo fa su Rai 1, nel varietà che guardiamo noi quarantenni anziane che non usciamo il venerdì sera se non in caso di forza maggiore. Ho visto un tizio che imitava Mick Hucknall, e mi sono ricordata il senso d'invasione di campo avvertito quando mio padre comprò il long playing dei Simply Red. I genitori non ascoltavano i viventi. I genitori ascoltavano Gino Paoli (sì, all'epoca era anche lui uno splendido cinquantenne: non infierite, è già una presa di coscienza difficile). Il punto però non è quanti anni avesse allora Gino Paoli, o Mick Hucknall, o Ray Charles, o Mozart (almeno lui era morto, semplificando il gap generazionale). Il punto è quanti ne aveva mio padre. Quando io davo per scontato che i nostri consumi culturali fossero non solo non sovrapponibili, ma che fra di essi ci fosse assoluta incomunicabilità; quando avevo in camera poster di gente che mio padre non riconosceva, come d'altra parte mio nonno non aveva mai imparato il nome di quel gruppo di capelloni che piacevano a lui (i Beatles); quando passava schifato davanti al televisore mentre io guardavo Candy Candy, e io d'altra parte mi annoiavo a morte quando lui guardava Blade Runner; in quegli anni lì, mio padre aveva l'età che ho io ora. L'età che più o meno hanno tutti i miei amici con figli.
L'età – attorno ai quaranta – dei genitori: quelli che una volta erano adulti e ora sono giovani promesse. Adulti che sfidano minorenni a videogiochi che conoscono meglio di loro. Ultraquarantenni che conoscono i personaggi della letteratura young adult (quelli che nel Novecento si chiamavano libri per ragazzi) meglio dei dodicenni cui sono destinati.

Padri che non solo consumano gli stessi viventi dei figli, ma lo fanno con più gusto di loro: li vedi, ai concerti di Jovanotti o al botteghino dell'ultimo lungometraggio Marvel, e capisci che i piccoli sono lì per accompagnare grandi che li hanno superati in zelo nel ruolo di fan. C'è una secchionaggine, nel giovanilismo degli adulti, che non ci sarà mai nella gioventù dei ragazzini.

La prima volta in cui mi hanno spiegato il mercato monopolizzato dai ragazzini, era il 2007. La tizia con cui stavo parlando aveva prodotto una commedia di quelle che negli anni Novanta facevano grandi incassi, e che poi hanno smesso di esistere perché non hanno più avuto mercato. (Nota a margine: stavo per scrivere «un film per adulti», ho evitato perché la definizione farebbe pensare a tutti che si trattasse di pornografia; ma forse, da questa cosa che «adulto», al botteghino, equivalga a «osceno», avremmo dovuto capire già da decenni che sarebbe finita così. Col box office salvato dai ragazzini).

Insomma, la tizia mi disse che lei d'altra parte la capiva, Hollywood. Perché mai fare un film per grandi? Considerato che: i grandi dovranno organizzarsi per trovare una serata libera sia per loro sia per gli amici con cui uscire, cercare una babysitter, porsi il problema che non si troverà parcheggio, e alla fine cara grazia se a vedere quel film ci andranno una volta. Invece il tredicenne medio, che il dio dell'indotto commerciale lo benedica, ci tornerà più volte con gli amici, comprerà i pupazzetti dei supereroi protagonisti, i videogiochi, e quando uscirà persino il blu-ray. Tolto il blu-ray (che il tredicenne medio oggi piraterebbe), tutto il resto vale ancora, e spiega perché Hollywood abbia abbandonato gli adulti come neanche i cani a Ferragosto. Con implacabile regolarità, almeno mezza dozzina di volte l'anno qualche rivista americana pubblica un articolo sdegnato sul fatto che ai botteghini cinematografici nessuno rischia più niente (e perché dovrebbero? È un'industria, mica un tavolo di poker) e stigmatizzando gli ultimi dieci grandi incassi: quattro sequel, tre supereroi, due quinti capitoli di saghe young adult, e un film di esplosioni. Mancanza di idee, dicono scandalizzandosi; senza tenere in alcun cale la maggior commerciabilità dei gadget col logo Hunger Games rispetto a quella delle magliette-colle-scritte col marchio dell'ultimo Clint Eastwood.

Nessuna egemonia è davvero tale finché gli egemoni non iniziano strategicamente a fingersi minoranza oppressa, e infatti in California hanno ripescato dalle categorie psicologiche del Novecento l'adultismo. L'imposizione degli adulti sui ragazzini. La curano con appositi seminari. Dicono che i piccini sono discriminati. È come se li vedessi, i docenti del seminario, che come gli altri sanno tutto di Justin Bieber e di Colpa delle stelle, ma sono convinti che questo faccia di loro degli adulti specialmente sensibili, e non dei banali adolescenti senili.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi