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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2014 alle ore 08:14.

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Mentre sul far del l'estate i media internazionali hanno cominciato a riempirsi di approfondimenti sul centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale, Vienna, che aveva dedicato all'argomento fiumi di inchiostro e una miriade di mostre fin dall'inverno scorso, ha spostato decisamente e non a caso l'attenzione sul 25° del 1989, un anno che nella capitale austriaca si ricorda molto bene, perché in quella mite estate si respirò di nuovo improvvisamente aria di Storia.
Come nel 1956 magiaro, come nel 1968 cecoslovacco, in quell'ultimo scorcio degli anni Ottanta Vienna fece solo da sponda agli eventi, però significativamente. E solo ora, a distanza di due decenni e mezzo dal fremito che guizzò lungo tutta la cortina di ferro e la fece crollare, quei fatti vengono illuminati più sistematicamente per l'opinione pubblica, grazie a nuove rivelazioni e rievocazioni di cittadini e di politici, allora spesso opportunamente taciute o espresse con reticenza.
Con quello che a posteriori appare come un preciso piano a tappe ravvicinate, forti dell'assicurazione di non ingerenza data loro da Gorbaciov nel 1988, fin dalla primavera del 1989 gli ungheresi avevano cominciato a sferrare sostanziali colpi alla cortina di ferro, sotto lo sguardo attento di Vienna, che per ovvio interesse nazionale osservava molto precisamente ogni dettaglio di quegli sviluppi alle proprie frontiere.
I magiari cominciarono innanzitutto a smantellare unilateralmente la striscia della morte lungo il confine austriaco, adducendo come motivazione il fatto che quelle attrezzature, mal conservate da decenni, erano obsolete: «Un'operazione cosmetica», aveva detto il 6 maggio il ministro della difesa della DDR Heinz Kessler al suo capo Erich Honecker, per tranquillizzarlo. E invece in quell'azione, di cosmetico c'era assai poco.
I due passi seguenti furono schiettamente politici: a Budapest, l'8 maggio Janosz Kadar, considerato assai più l'artefice dell'invasione russa del 1956 che il promotore del «comunismo gulasch» o della «allegra baracca comunista», come veniva chiamata l'Ungheria degli ultimi decenni, venne sollevato da ogni residuo incarico, sgombrando del tutto la strada ai riformisti.
E il 12 giugno il Paese aderì alla Convenzione di Ginevra del 1951, impegnandosi a non rimpatriare rifugiati minacciati di ritorsioni.
La successiva azione bipartisan fu invece genuinamente mediatica, e lanciò un forte e chiaro segnale globale. In un incontro bilaterale austro-ungherese, i due ministri degli Esteri Alois Mock e Gyula Horn, concordarono di trovarsi il 27 giugno sul condiviso confine nei pressi di Sopron, e, tenaglioni alla mano, sotto i flash di dozzine di fotografi tagliarono gioiosamente pezzi di filo spinato.

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