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Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre 2014 alle ore 08:14.

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C'è una relazione tutta da scoprire nel documentario di Perri Peltz e Geeta Gandbhir Remembering the Artist: Robert De Niro Sr. È la relazione fra un padre e un figlio, entrambi artisti, entrambi trascinati nel lavoro dalla passione. Il documentario, dedicato al percorso artistico di Robert Sr., racconta molto di questa relazione, ma intrecciate nella narrativa si percepiscono alcune cose non dette. Le si percepiscono nei ricordi di Bob Jr., nelle parole di Bob Sr., tratte dal suo diario e lette dal figlio attore. Nei ricordi dei vecchi amici che parlano della solitudine di Robert Sr. e della sua omosessualità. Del suo rifiuto di quel gruppo di artisti emergenti di allora, a cavallo degli anni Cinquanta, da De Kooning a Rothko: erano partiti come lui dal l'espressionismo astratto, alcuni come lui dall'ottima scuola di Hoffman, ma avevano poi varcato nuove frontiere che De Niro Sr. non ha mai voluto superare. Poi loro fecero storia e lui no. Era contro la Pop Art, di Jasper Jones o di Andy Warhol ed era contro la "commercializzazione" dell'arte che giudicava eccessiva. Oggi le sue opere sono anche al Met e al MoMa, ma come artista restò legato alla cultura francese, a Matisse, al l'espressionismo figurativo su cui tutti si erano formati, ma che la maggioranza si era lasciata indietro. Ecco la prima differenza non detta fra padre e figlio, che ha partecipato attivamente al documentario.
Bob cominciò giovanissimo a fare l'attore, studiò con Lee Strasberg e, seguendo il "metodo" di Stanislawski, portò "oltre" il copione le sue interpretazioni. Varcò insomma quel confine artistico che il padre non aveva voluto superare. È rimasto leggendario il monologo davanti allo specchio in Taxi Driver, quasi completamente improvvisato. Per questo quando l'ho incontrato nel suo ufficio su Washington Street a Tribeca a New York, ho chiesto a Bob Jr. se si trovava d'accordo sul fatto che ci fossero alcune cose non dette. Ad esempio se la resistenza del padre a varcare nuove frontiere artistiche avesse invece incoraggiato lui a varcarle; oppure se le difficoltà materiali in cui si era trovato il padre lo preoccupavano sui rischi impliciti nello scegliere una carriera artistica.
«All'epoca, da bambino, vedere mio padre vivere in questo modo, se vuoi un po' squallido, non è che mi facesse impressione», mi dice Bob, seduto in poltrona nel suo studio circondato da decine di foto di famiglia. «Ha certamente faticato come artista, ma faceva quel che voleva, creava, per questo lo ammiro. Ma quello che lui ha rappresentato poi come artista, ha avuto certamente un impatto su di me, a livello conscio e inconscio. Prendere strade diverse da quelle indicate mi veniva spontaneo. Non so se inconsciamente ho reagito all'esperienza di mio padre».
La riflessione chiave di Bob Jr., 71 anni, capelli folti e grigi, seduto tra le foto di famiglia, è dunque su fattori «consci e inconsci». «Sperimentazione» a parte, possibile anche che abbia avuto più fortuna del padre per lo stacco generazionale? Possibile che l'essere di origine italoamericana 30 anni dopo abbia costituito per lui un vantaggio e per il padre uno svantaggio? Possibile che il vederlo in difficoltà gli abbia dato un senso pratico che lo ha portato oltre a essere un grande attore anche un grande uomo d'affari?
È su queste direttrici che il documentario, pur senza entrare direttamente in argomento, ci dà molti spunti. Vediamo ad esempio la madre di Bob, Virginia Admiral, poetessa e artista anche lei, ma pragmatica: lascia l'arte per allevare il figlio di pochi anni quando il marito pittore divorzia e va per la sua strada: «Ho preso il senso degli affari da mia madre – dice – e quello artistico da mio padre».
Sappiamo dalle testimonianze del documentario che Bob Sr. evitava il caffé dove il gruppetto di artisti suoi coetanei si ritrovava. E sappiamo che in quel gruppo di artisti, che avrebbero dominato il secondo Novecento, non c'erano italoamericani. Bob Jr. però attribuisce l'estraniazione da quegli artisti soprattutto all'omosessualità del padre, «erano un gruppo di "machos", mio padre non lo era, non era in sintonia con loro». Ma il gruppo era attivo e in crescita. Lanciava quella «New York School» che avrebbe trasferito il baricentro creativo da Parigi a New York. E mentre il "trasferimento" mette radici, Bob Sr. decide di lasciare New York e andare proprio a Parigi dove in effetti c'era ancora un fermento letterario e artistico, anche di matrice americana (pensiamo alla «Paris Review» o a Hemingway) ma ci andava per guardare indietro invece che in avanti. O per cercare l'Europa? Anzi, la Francia? C'era forse un complesso italoamericano in Bob Sr.? Sulla carta si direbbe di no. I suoi nonni paterni erano sì venuti dalla provincia di Campobasso, ma la madre era irlandese. Secondo Bob Colacello, un giornalista e scrittore americano che si è formato nel gruppo ristretto di Andy Warhol, l'essere italoamericani a cavallo degli anni Cinquanta/Sessanta rappresentava uno svantaggio. C'era il complesso della "mafia" o quello di essere un parvenu ma Colacello mi dà anche una spiegazione culturale: «Il milieu culturale in cui nasceva la Scuola di New York aveva una matrice ebraica, da Peggy Guggenheim a molti degli artisti. Gli italiani e gli ebrei in quegli anni vivevano insieme negli stessi quartieri si frequentavano, ma c'era una differenza chiave: la comunità ebraica apprezzava e incoraggiava la studio dei loro giovani, quella italiana no, pensava che studiare, essere intellettuali fosse equivalente a darsi delle arie. Risultato, il tessuto culturale ebraico in quegli anni aveva acquisito molto più spessore di quello italoamericano. Aggiungo: gli irlandesi non erano amati. Mi sorprenderebbe che essere italo irlandese in quel momento potesse aiutare De Niro Sr».

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