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Questo articolo è stato pubblicato il 29 novembre 2014 alle ore 09:11.

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Città letterariamente e storicamente meno rievocata che non altri capoluoghi simbolici della Seconda guerra mondiale – da Parigi a Varsavia a Stalingrado – Budapest offre una scenografia altrettanto drammatica quanto ai suoi attori e alle sue tragedie. Su tutte la persecuzione degli ebrei. Capitale di un'Ungheria alleata della Germania che nel marzo 1944 era stata occupata dalle truppe nazi perché poco vogliosa di opporsi alla bruciante avanzata dell'Armata Rossa, dove poteva avvenire se non a Budapest che, una sera di novembre del 1944, sedessero a cena il diplomatico svedese trentaduenne Raoul Wallenberg e il trentottenne tenente colonello delle SS Adolf Eichmann?

Che sedessero uno di fronte all'altro l'uomo che forse più di ogni altro in Europa s'era dato a proteggere dal massacro nazi le vite degli ebrei (in questo caso gli ebrei ungheresi) e l'ufficiale delle SS che era uno dei boia principi di quel massacro, mentre alle finestre della sala da pranzo scintillavano i bagliori nemmeno troppo lontani dei colpi sparati dall'artiglieria dell'Armata Rossa, i cui soldati avrebbero completato l'accerchiamento di Budapest da lì a un mese, il 27 dicembre 1944.

Che sedessero uno di fronte all'altro Wallenberg, impegnato a convincere Eichmann che il regime nazi era allo stremo e che era pazzesco continuare a braccare uno a uno gli ebrei ungheresi, e l'alto ufficiale delle SS il quale rispondeva che lui sarebbe rimasto fedele a Hitler sino alla fine. E del resto una sorte tragica li attendeva entrambi, seppure a notevole distanza di anni. Eichmann che l'aveva fatta franca alla fine della guerra e se ne era andato a vivere in Argentina, venne rapito dal Mossad israeliano nel 1960, processato a Israele e impiccato il 31 maggio 1962. Wallenberg sarebbe stato catturato il 17 gennaio 1945 dai russi arrivati vittoriosi alle soglie di Budapest e ai quali lui si era presentato da amico, detenuto per due anni nelle celle sovietiche e liquidato non sappiamo esattamente come attorno al luglio 1947. A tutt'oggi i russi non hanno mai rivelato ufficialmente le circostanze dell'assassinio di Wallenberg.

Di tutti i crimini compiuti dallo “Stato canaglia” staliniano, la messa a morte dell'“eroe di Budapest” resta uno dei più inspiegabili. Talmente impossibile da spiegare che il nome di Wallenberg resta sconosciuto ai più, e a differenza di altri eroi che durante la Seconda guerra mondiale si levarono a proprio rischio in difesa degli ebrei. L'italiano Giorgio Perlasca e l'industriale tedesco Oskar Schindler, tanto per fare due nomi. Quando ho finito di leggere l'accuratissimo libro dello storico svedese Bengt Jangfeldt, The Hero of Budapest (pubblicato adesso in inglese dalla casa editrice I. B. Tauris dopo l'edizione originale svedese del 2012), ho chiesto a due dei miei amici più colti se avessero mai sentito pronunciare il nome di Raoul Wallenberg. Mai.

Proveniente da un'agiata famiglia della borghesia svedese, Wallenberg era un uomo il cui destino sembrava inizialmente quanto di più lontano dagli itinerari e dalle febbri della politica. Nei suoi vent'anni aveva studiato architettura e viaggiato in tutto il mondo. L'arte cui pareva destinato era quella degli affari, ben nota alla sua famiglia decisamente altolocata. Gli piaceva molto stare con gli altri, conoscerli, “trattare” con loro. La Svezia, durante la Seconda guerra mondiale, era un Paese neutrale, e siccome il governo svedese aveva capito che l'Ungheria occupata dai nazi si sarebbe trasformata in un inferno per i 750mila ebrei che ci vivevano, qualcuno pensò che il giovane Wallenberg fosse atto alla bisogna: quella di mandarlo a capo della legazione svedese a Budapest, lì dove avrebbe potuto “trattare” una a una le vite degli ebrei ungheresi in pericolo.

Alla cena con Eichmann il boia, Wallenberg stava per l'appunto “trattando”, verbo ineliminabile da ogni situazione che presenti i tratti dell'emergenza e della tragedia. Il fatto è che immediatamente dopo l'occupazione nazi era cominciata la marcia verso la morte degli ebrei ungheresi residenti nelle città di provincia. Un massacro da quantificare nell'ordine di un treno carico di tremila ebrei che ogni giorno e per tre mesi partiva dall'Ungheria verso la rampa di Auschwitz-Birkenau, un massacro cui presiedeva personalmente Eichmann, accompagnato dal suo complice Theo Dannecker, il trentunenne capitano delle SS che aveva guidato il rastrellamento degli ebrei parigini nel luglio 1942 e quello degli ebrei romani il 16 ottobre 1943. Solo che lo stesso governo ungherese retto dall'ammiraglio Miklós Horthy era sì un governo antisemita, ma non a tal punto. Il 6 luglio 1944 le SS tedesche vennero stoppate.

Fino a quel momento gli ebrei di Budapest erano stati risparmiati. Immenso e rischiosissimo era stato il lavorìo quotidiano a loro favore di Wallenberg e dei suoi numerosissimi colleghi della legazione svedese, ma anche della legazione svizzera e di quella spagnola. Wallenberg aveva firmato passaporti a migliaia di persone che attestavano un qualche rapporto del titolare con la Svezia, aveva trovato case e rifugi per gli ebrei braccati, aveva fornito cibo ad alleviare la condizione di uomini e donne allo stremo delle forze. Tutto questo in una Budapest dove erano feroci le milizie delle Croci Frecciate, il partito politico ungherese spasmodicamente antisemita ricostituitosi nel 1939 dopo essere stato messo fuori legge due anni prima. Nell'ottobre del 1944 la riluttanza dell'ammiraglio Horthy a precipitare nel burrone della imminente sconfitta nazi lo aveva spinto a voler firmare un accordo di pace separata con i russi.

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