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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2014 alle ore 16:31.

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Imperatore nelle guerre | Tiziano (1480-1576), «Carlo V (1500-1558) ritratto a cavallo, alla Battaglia di Mühlberg», 1548Imperatore nelle guerre | Tiziano (1480-1576), «Carlo V (1500-1558) ritratto a cavallo, alla Battaglia di Mühlberg», 1548

Quando fu eletto imperatore del Sacro Romano Impero, il 28 giugno 1519, Carlo di Gand, il figlio primogenito di Filippo il Bello d'Asburgo (morto nel 1506) e di Giovanna la Pazza, non aveva ancora compiuto vent'anni. Mai più fino a Napoleone la storia europea avrebbe visto un potere così esteso in ogni angolo del continente, da Gibilterra a Lipsia, da Anversa a Tunisi. Fu il più spettacolare successo della sagace politica matrimoniale degli Asburgo, poiché una serie di morti premature e di casi fortuiti lo portò a ereditare i domini di tutti i suoi quattro nonni: da Massimiliano I le terre ereditarie di casa d'Austria e la corona imperiale; da Maria di Borgogna le ricche Fiandre e la Franca Contea; da Ferdinando il Cattolico l'Aragona e le corone di Napoli, Sicilia e Sardegna; da Isabella di Castiglia i regni di una Spagna ormai liberata dai mori e protesa sugli oceani verso gli sterminati dominii d'oltremare recentemente scoperti.

Era una miriade di regni, principati, ducati, città, feudi sui quali Carlo esercitava poteri molto diversi, talora quasi nominali, che trovavano unità solo nella sua persona e che lo costringevano a passare la sua vita in continui viaggi, per mostrarsi ai suoi sudditi, accettarne l'obbedienza, chiederne il contributo finanziario. Questa frammentata disarticolazione costituì una delle più gravi debolezze dell'impero sul quale non tramontava mai il sole, come si disse, dal quale lo stesso Carlo V avrebbe infine abdicato nella consapevolezza di non poter reggere la sfida alla sua egemonia europea da parte della poderosa Francia di Francesco I e di un altro impero in grande espansione, quello ottomano di Solimano il Magnifico, che dopo aver conquistato l'Ungheria giunse a porre l'assedio a Vienna nel 1529 e per mare sconfisse ripetutamente la flotta spagnola. Proprio alla vigilia dell'elezione imperiale, infine, la protesta di Lutero aveva dato vita alla frana del cattolicesimo a nord delle Alpi, della quale i principi tedeschi approfittavano per emanciparsi dall'autorità imperiale, mentre la stessa fine della respublica christiana ne delegittimava la sacralità di suprema tutrice della fede e della Chiesa.

Queste tempestose vicende investirono in pieno anche la penisola italiana, la cui debolezza politica era stata messa in evidenza dalla calata di Carlo VIII nel 1492 per rivendicare la sovranità francese sul regno di Napoli. Una nuova stagione di «guerre horrende» (così le definì Francesco Guicciardini) devastò per un quarantennio la penisola, con il loro inseparabile seguito di carestie, pestilenze, saccheggi, violenze d'ogni genere: il sacco di Roma del 1527, perpetrato dalle truppe imperiali, ne fu l'episodio più noto. Al centro dello scontro c'era Milano, il bastione dal quale si controllava la ricca e colta Italia del suo rigoglioso autunno rinascimentale, l'Italia di Machiavelli e Raffaello, di Bembo e Michelangelo, dove una fitta trama di principati feudali, di signorotti e tirannelli, di repubbliche cittadine, di piccole corti cercava di navigare tra i perigliosi flutti di quei decenni, di muoversi tra Francia e Spagna nel solco di antichi lealismi dinastici o alla ricerca di nuove alleanze per districarsi e sopravvivere tra quegli «atrocissimi accidenti», sono sempre parole di Guicciardini. E l'Italia fu allora al centro della politica di Carlo V, «il più saggio imperatore e giusto / che sia stato e sarà mai dopo Augusto», cantava Ludovico Ariosto.

A complicare la situazione c'era poi il millenario insediamento a Roma del papato, coinvolto fino in fondo nelle convulse vicende politiche della penisola, alla ricerca di un'autonomia e di un predominio che induceva a usare le grandi risorse della cosiddetta fiscalità spirituale della Chiesa per arruolare eserciti e liberare l'Italia dai barbari, come soleva dire Giulio II, o per tutelare il proprio potere secolare, come accadde ai papi medicei Leone X e Clemente VII, che solo grazie alla tiara riuscirono a controllare Firenze, o ancora per costruire qualche staterello destinato a perpetuare il potere della famiglia, come non riuscì a fare Alessandro VI Borgia, mentre ci riuscì Paolo III Farnese, utilizzando feudi della Chiesa per creare il ducato di Parma e Piacenza e insignirne suo figlio Pier Luigi, un brutale soldataccio. «Il buon vecchiarello si sguazza il mondo felicissimo», commentò furioso il cardinale Ercole Gonzaga, cui parve «una strana cosa il veder fare un duca di due simili città in una notte, come nasce un fungo». A ciò si aggiunga infine che l'esigenza di convocare un concilio ecumenico per definire l'ortodossia cattolica e varare la riforma della Chiesa contrapponeva papato e impero, proteso l'uno a condannare le eresie protestanti, e l'altro invece a cercare una possibile mediazione con i luterani, sperando che un incisivo rinnovamento dell'istituzione ecclesiastica ne avrebbe frenato i successi in terra tedesca. Il concilio si riunì finalmente a Trento alla fine del 1545, e lo scontro esplose nel '47 quando, dopo aver incassato l'approvazione di alcuni importanti decreti teologici, con il pretesto di un'epidemia Paolo III lo trasferì a Bologna, in terra della Chiesa, con furibonda collera dell'imperatore, che non tardò a vendicarsi facendo assassinare Pier Luigi Farnese. «Io so la via di Roma – tuonava Carlo V – guardisi papa Paulo di non far ch'io vada a trovarlo!».

Ed è appunto negli anni cruciali del pontificato di Paolo III (1534-1549) che si immerge il denso e affascinante studio di Elena Bonora che, sulla base di una ricchissima documentazione d'archivio, ricostruisce la fitta trama del partito filoimperiale in Italia, tra principi e feudatari, cardinali e ambasciatori, spie e agenti d'ogni tipo, ricostruendone attraverso straordinarie corrispondenze private le istanze, i progetti, le speranze, le delusioni. Ne emerge tutta un'Italia fieramente antipapale e antifarnesiana, desiderosa di farla pagare cara a quel pontefice che aveva «oltraggiato tutti i principi d'Italia», di ficcare «un stecco perpetuo nelli occhi di Sua Santità», di togliersi «questo sterco dai piedi», di «empoderarse de Roma», anche in vista di una riforma della Chiesa tale da assumere in alcuni casi connotati eterodossi, nella convinzione che spettasse a Carlo V e non a Paolo III il compito di «aconchiar el mundo i reformar la Iglesia». A popolare la scena sono personaggi spesso di alto rango e vivida personalità, come il cinico cardinal di Ravenna Benedetto Accolti, a dire il vero poco disposto a credere nella fede cristiana, l'ambasciatore spagnolo don Diego Hurtado de Mendoza, la cui vastità di esperienze politiche e il cui acuminato giudizio si nutrivano di straordinaria cultura e spirito di libertà, don Ferrante Gonzaga, plenipotenziario di Carlo in Italia, e suo fratello Ercole, cardinal di Mantova, principe della Chiesa e di fatto principe dello Stato gonzaghesco, l'abilissimo duca di Firenze Cosimo de' Medici, il potente e imprudente Ascanio Colonna. E con essi si intrecciano le passioni e la smagata lucidità politica di una generazione che, se riusciva a sopravvivere in quei terribili frangenti, lo doveva solo alla propria capacità di capire uomini e cose, di cogliere il senso degli eventi, di prevedere il futuro.

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