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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2014 alle ore 16:59.

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Anche la lingua va avanti, anzi va avanti alla velocità della luce perché i parlanti e gli scriventi sono sempre di più, e la comunicazione è istantanea. Il cambiamento è sempre faticoso e fastidioso: vorremmo che le cose che abbiamo imparato restino lì, immobili. Tempo fa ho sentito un collega che si lamentava del fatto che i ragazzini non conoscano più le fiabe dei fratelli Grimm e passino il tempo sui libri di Harry Potter o sui videogiochi. Ma questo è un segno di ricchezza, non di povertà. Se si raccontassero ancora le fiabe dei Grimm vorrebbe dire che negli ultimi due secoli l'immaginazione umana non ha creato niente di nuovo che valga la pena di raccontare. Per fortuna non è così. Allo stesso modo, se una cultura è vitale, la sua lingua evolve, cioè perde alcune caratteristiche e ne acquista altre, «dimentica» alcune parole e ne introduce altre nell'uso. Ecco, dunque, in apertura di libro, le otto «tesi» che Antonelli via via approfondisce parlando tra l'altro di sms, di congiuntivi zoppicanti, di anglismi, di parolacce, di interpunzione malmessa (pagine 18-34):
e Tutte le lingue sono alla deriva, perché la deriva è la condizione naturale di tutte le lingue vive.
r Se le lingue cambiano nel tempo, i modelli del passato non possono valere per il presente.
t Profeti di sventura sul futuro dell'italiano ce ne sono da secoli, ma il futuro li ha sempre smentiti.
u Un'età dell'oro in cui tutti parlavano (o scrivevano) bene non c'è mai stata.
i Parole nuove (e straniere) fanno parte da sempre di un continuo e salutare ricambio epidermico.
o Difendere la purezza di una lingua è assurdo, perché nessuna lingua è mai stata pura.
p Nella lingua, il confine tra giusto e sbagliato è molto meno netto di quanto si possa immaginare.
a Usare bene una lingua non significa parlare (o scrivere) come un libro stampato.
Tanto buon senso e tanta moderazione, da parte di un linguista, sono corroboranti (unico appunto: non arriverei a dire, come fa Antonelli contraddicendo il parere di un giornalista «conservatore», che «chi se la prende con “il fantozziano vadi, l'orrendo facci, il terrificante venghi” applica categorie estetiche del tutto fuor di luogo, dato che vadi era già forma leopardiana, facci dantesca, venghi boccacciana»: messa così, ha ragione il giornalista, perché nel primo caso si tratta di errori, nel secondo di forme ammissibili all'epoca di quei tre scrittori, non certo oggi).
Ma allora? Chiudere le scuole e lasciare che tutto vada come deve andare? Al contrario (e torniamo così all'attimino). Così come s'insegnano i fondamenti dell'educazione, bisogna insegnare i fondamenti della lingua, a cominciare dalla grammatica, che ho l'impressione sia ormai piuttosto negletta. Ma bisogna anche dire chiaramente che non tutte le norme che regolavano l'uso linguistico nel passato valgono per l'uso odierno (non è così anche per la buona educazione? Non sarebbe ridicolo adottare, oggi, certi vecchi manierismi da cortigiani?). E soprattutto, come osserva bene Antonelli, bisogna spiegare che a contare sono soprattutto i registri, e cioè che quasi tutto si può dire e quasi tutto si può scrivere – anche le parolacce, anche a me mi – purché si sia ben consapevoli del fatto che non tutto può essere detto sempre e dovunque. Salvo che qui le cose si complicano di nuovo, perché chi fissa i confini, chi dice dove e quando? Io per esempio sono sobbalzato leggendo a pagina 50, e non tra virgolette, la parola sfottò. Ma chissà: magari sono io lo schifiltoso, il pedante. È complicato.

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