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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2014 alle ore 08:14.

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Si narra che un antico padre del deserto egiziano, interrogato da un sacerdote sul miglior metodo per predicare, elencasse tre regole: scegliere un inizio coinvolgente, concludere con un finale travolgente, ma soprattutto fare sì che tra avvio e conclusione ci sia il minor spazio possibile. Sulla sensazione di infinito che generano le prediche noiose si sono esercitati a legioni: Voltaire comparava l'eloquenza sacra alla spada di Carlo Magno, «lunga e piatta», e Montesquieu aggiungeva che questo accade perché gli oratori sacri quello che non sanno dare in profondità lo suppliscono con la lunghezza, mentre Swift – che era stato pastore anglicano – aveva scritto un libello sul come conciliare un sonno sereno all'uditorio durante un sermone pomeridiano e il nostro Carlo Bo intitolava un analogo piccolo saggio L'omelia, tormento dei fedeli...!
In realtà la questione della comunicazione religiosa è ben più complessa e non merita solo battute ironiche, giustificate da una certa predicazione che è negli orecchi di molti. Sappiamo, infatti, quanto sia evoluto il linguaggio in questi ultimi decenni di informatica e di annunci pubblicitari, al punto tale che già McLuhan scherzava sul fatto che, seguendo gli spot, Cappuccetto Rosso oggi si convincerebbe gioiosamente a lasciarsi accompagnare dal lupo (e, fuor di metafora, è noto quanto sia vera questa drammatica dipendenza per i ragazzi in campo sessuale). Tecnicamente il sermone liturgico è chiamato "omelia", un vocabolo di matrice greca che si trova una sola volta nel Nuovo Testamento nel senso di "conversazione" (Corinzi 15,33). Il verbo relativo homiléô ricorre due volte nel celebre racconto dei discepoli di Emmaus che appunto «conversavano tra loro» in quel pomeriggio assolato quando a loro si accostò il Cristo risorto (Luca 24,14-15), e un'altra volta applicato a un discorso serale di s. Paolo così lungo da far cadere dalla finestra un ragazzo che s'era beatamente addormentato (Atti 20,11).
C'è, dunque, un aspetto dialogico perché il comunicare un messaggio, soprattutto performativo e non meramente informativo, esige un'interazione tra parola e ascolto, cosa del tutto dimenticata da molti accademici quando leggono le loro relazioni ignorando tempo e ambiente in un solipsismo, scandito solo dal girare dei fogli che all'uditorio sembrano non finire mai. Ma nell'omelia c'è tanto altro. A chi volesse ricomporre una sorta di grammatica della predicazione, così da «salvare l'omelia perduta», suggeriamo un suggestivo e (giustamente) piacevole testo elaborato da un docente universitario, Adriano Zanacchi, che ha dedicato vari saggi al tema della pubblicità. Questo accostamento di generi non deve scandalizzare perché, sia pure con finalità ben diverse, entrambi i percorsi comunicativi hanno come approdo il coinvolgimento e l'adesione del destinatario.
Particolarmente rilevante – e non sarebbe male che leggessero queste pagine non solo i sacerdoti ma anche i politici e gli insegnanti – è l'ampia sezione rubricata sotto il titolo "Predicare meglio è possibile". In essa si allestiscono le risorse fondamentali del public speaking, sia in genere sia in contesto religioso, tenendo conto di tre nodi capitali del processo comunicativo: la costruzione del discorso, la definizione della forma e l'attualizzazione. Naturalmente molti altri corollari sono presi in esame e il referente rimane ancor oggi il linguaggio folgorante di Cristo, soprattutto attraverso il ricorso alla tecnica narrativo-parabolica. L'esito è illustrato in modo emblematico dall'evangelista Giovanni: «Alcuni dei capi dei sacerdoti e dei farisei volevano arrestare Gesù, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono da loro e questi chiesero: Perché non lo avete condotto qui? E le guardie: Mai un uomo ha parlato così!» (7,44-46). La parola autentica non può essere incatenata.
Lo scrittore e giornalista Beniamino Placido, "laico" appassionato delle Scritture Sacre, mi confessava: «Quelle poche volte che ascolto le prediche durante i funerali o le nozze mi stupisco sempre della pallida banalità dei commenti del sacerdote dopo che sono state lette pagine così alte, potenti e fin drammatiche». È questo un altro elemento da vagliare: l'omelia non è una vaga monizione morale o una generica sequenza di verità teologiche da istillare in menti refrattarie. È, invece, un annuncio vivo di una Parola sacra che precede ed eccede l'oratore e di cui egli è semplicemente "servitore" (in realtà l'evangelista Luca usa il termine greco che indica il "rematore" che fa navigare nell'oceano del divino ove si scoprono sempre nuovi mari quanto più si procede).
Un altro docente di temi del linguaggio (in questo caso è la storia della lingua italiana), Michele Colombo, ha approntato un piccolo studio a partire dal legame della predicazione italiana con la Bibbia dal Concilio di Trento in avanti e col successivo ingresso nella formazione sacerdotale della versione biblica italiana elaborata da Antonio Martini, futuro arcivescovo di Firenze (1781-1809). Questa traduzione, condotta sul latino della Vulgata, ebbe un successo enorme non solo tra il clero ma anche in ambito colto secolare (la usarono Pellico, Balbo, d'Azeglio, Manzoni), allargandosi a tutto l'Ottocento con oltre 40 edizioni, superando in influsso quella protestante di Diodati che si basava sugli originali. Entrambe le versioni ebbero un influsso sulla lingua e sullo stile dell'oratoria religiosa. Colombo perlustra alcune caratteristiche di questa eloquenza sacra, dal purismo linguistico (si pensi al noto abate Antonio Cesari) alla teatralità non solo gestuale ma stilistica (emblematico è il predicatore Francesco Finetti), dall'intreccio tra argomentazione razionale e messaggio teologico (Colombo propone il modello dell'ottocentesco Giuseppe Barbieri) fino all'impostazione strettamente apologetica, esemplificata nel genovese Gaetano Alimonda. E non manca anche uno sconfinamento nel vasto orizzonte della comunicazione a livello popolare ove brilla s. Giovanni Bosco.

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