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Questo articolo č stato pubblicato il 07 dicembre 2014 alle ore 08:16.

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La Madonna Esterházy di Raffaello fu oggetto di un clamoroso furto messo a segno nel Museo di Belle Arti di Budapest nel 1983. In quella circostanza, assieme alla tavola raffaellesca, vennero sottratte dal museo ungherese altre sei opere di scuola italiana: un Ritratto di giovane, anch'esso attribuito a Raffaello, un Ritratto d'uomo attribuito a Giorgione e da alcuni considerato il suo autoritratto, una Vergine con sei santi di Giambattista Tiepolo, un Riposo dalla fuga in Egitto di Giandomenico Tiepolo, un Ritratto di uomo e un Ritratto di donna ascrivibili alla mano di Tintoretto.
Il colpo venne effettuato tra sabato 5 e domenica 6 novembre 1983. Il Museo di Belle Arti di Budapest era particolarmente vulnerabile, era avvolto dalle tenebre notturne e offriva ai ladri un "appiglio" perfetto: sul retro del museo si ergeva una grande impalcatura, montata per eseguire alcuni lavori di restauro. I malintenzionati si arrampicarono da lě, grossomodo all'una e trenta di notte, in perfetta sincronia con il cambio del turno di guardia dei custodi che avveniva proprio a quell'ora. I ladri s'avventurarono per le sale e nessun allarme si attivň a segnalare la loro presenza. Entrarono nella sezione dei maestri italiani, identificarono le tele e le tavole da prelevare, le staccarono dalle pareti e le infilarono senza cornici dentro sacchi di juta. Poi ripercorsero a ritroso il cammino dell'andata. A lato del museo c'erano due auto (due Trabant) che li stavano aspettando: i ladri salirono sulle vetture e sparirono con la preziosa refurtiva.
La notizia del furto fece il giro del mondo e le indagini scattarono immediatamente. I primi dati acquisiti dalla polizia ungherese furono decisivi. I ladri avevano lasciato delle tracce: impronte digitali, spago, sacchetti di plastica e soprattutto un cacciavite usato per staccare i quadri dalle pareti. Il cacciavite recava impressa la scritta «Usag». Bastň una breve ricerca merceologica per appurare che quel cacciavite era stato fabbricato a Milano. Ma ancor piů rilevante fu la scoperta, quattro giorni dopo il furto, di un sacco di juta abbandonato lungo il greto di un canale vicino a Budapest. Al suo interno vennero ritrovati pezzi di cornici e montature dei quadri rubati, compresa la montatura della Madonna Esterházy. Il sacco di juta recava stampata all'esterno la scritta in italiano «Malteria Adriatica», un'azienda con sede a Venezia.
La polizia ungherese avvertě i Carabinieri italiani del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dell'evidente coinvolgimento di soggetti italiani nel furto di Budapest. I Carabinieri, a loro volta, attivarono immediatamente un'inchiesta parallela, puntando gli occhi sugli ambienti dei trafficanti d'arte attivi in Emilia Romagna. Nel frattempo, un mese esatto dopo il furto (il 6 dicembre) le forze dell'ordine ungheresi avevano arrestato Katalin Jónás, una giovane sedicenne scappata di casa. La ragazza si era allontanata dalla sua abitazione dal 6 novembre, frequentava abitualmente la malavita ungherese e parlava perfettamente italiano. Insospettita da quest'ultimo dettaglio, la polizia interrogň piů serratamente la giovane per vedere se ci fosse stato, per caso, un qualche nesso con il furto. Il nesso c'era. Katalin confessň di essere stata abbordata in ottobre da due italiani in un locale notturno di Budapest e che i due le avevano chiesto di segnalare alcuni connazionali eventualmente interessati a partecipare a un furto nel Museo di Belle Arti di Budapest. Katalin disse di aver indicato loro due pregiudicati: Gusztav Kovács e József Raffai.
Dopo la deposizione, Kovács e Raffai non ebbero scampo: vennero arrestati e sottoposti a interrogatorio. Kovács si rifiutň di parlare ma Raffai collaborň e dichiarň che a compiere il colpo furono materialmente tre persone, due italiani e Kovács. Secondo la sua testimonianza, il terzetto era entrato nel museo con il favore della notte e aveva sottratto le opere che si erano allontanate sulla Trabant. Non tutte perň: una di esse, il Ritratto di giovane di Raffaello, era stata lasciata agli ungheresi quale ricompensa per la loro partecipazione al furto. Raffai concluse la deposizione dicendo che i due italiani si erano divisi: uno aveva varcato in automobile la frontiera jugoslava a Letenye con sei quadri al seguito. L'altro aveva raggiunto l'Austria in treno.
Chi erano i due italiani autori del furto? Dove si trovavano ora? E soprattutto: dove erano finite le opere rubate?
L'impegno investigativo passň ai Carabinieri italiani. Le nostre forze dell'ordine stavano indagando attorno a un fatto di sangue avvenuto il 29 gennaio 1983 in una villa di Pavullo nel Modenese. Era accaduto che Pietro Bonvicini, custode della villa, era stato accidentalmente ucciso durante una rapina nella quale erano stati razziati quadri e mobili di grande pregio. Per questo «furto d'arte con delitto» erano ricercati due personaggi della zona di Reggio Emilia, Ivano Scianti e Graziano Iori, due figure note ai Carabinieri per l'appartenenza al torbido mondo dei trafficanti d'arte. Si sapeva che il quartier generale del "giro" di Scianti e di Iori era un certo bar di Reggio Emilia. Mettendone sotto controllo i telefoni, i Carabinieri captarono strane telefonate di un certo Giacomo Morini, che dall'apparecchio del locale chiedeva soldi per alcuni quadri e minacciava di restituirli alla polizia se non fosse avvenuto il pagamento. Facendo immediate verifiche su Morini, gli inquirenti vennero a sapere che l'uomo era proprietario di una Fiat Ritmo di colore rosso. Chiesero delucidazioni ai colleghi ungheresi ed ebbero un'eclatante conferma: in effetti un'auto con targa italiana era transitata dall'Ungheria alla Jugoslavia proprio al valico di Letenye nei giorni immediatamente successivi il furto di Budapest. E si trattava di una Ritmo rossa.

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