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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2014 alle ore 08:16.
L'ultima modifica è del 17 dicembre 2014 alle ore 11:41.
Sul finire degli anni '60 del secolo scorso, lo scrittore Georges Perec e i suoi amici Pierre Lusson e Jacques Roubaud, tutti e tre abili esperti di giochi linguistici e, più in generale, logici ed enigmistici, sentirono di doversi chiudere in un felice ritiro in Normandia per comporre il Breve trattato sulla sottile arte del go. In particolare l'autore di Vita, istruzioni per l'uso, romanzo costruito intorno all'idea del puzzle, fu colpito da istantanea illuminazione non appena venne a contatto con la più antica forma di gioco orientale, al punto che egli si sentì in dovere di rinnegare vigorosamente i «banali e grossolani» scacchi.
Il go, inventato in Cina 4.000 anni fa circa alla corte dell'imperatore Ketsu, sin dalla sua importazione in Giappone, per mano dell'ambasciatore Daijin nel 735, è tradizionalmente divenuto l'emblema della cultura nipponica caratterizzata da un «miscuglio di impassibile soavità e feroce sottigliezza»: a esso il monaco Honinbo dedicò una scuola alla quale si iscrissero tutti coloro che fossero intenzionati a dedicare la loro intera esistenza a questa arte sopraffina dell'estetica e della logica.
Solo gli sprovveduti, avverte Perec, considerano il go una sorta di «gioco degli scacchi giapponese». Diversamente dagli scacchi, il go non si basa sull'accaparramento del maggior numero di pedine, la vittoria non si conquista approfittando della debolezza dell'avversario: si tratta al contrario di un gioco di squisita strategia, dove ciò che conta è combattere ad armi pari, rispettare la dignità dell'avversario, evitare in ogni modo violenza e scortesia.
In poche parole, il go è una summa perfetta della sapiente arte orientale della meditazione zen e del dominio di sé. Non deve sorprendere se il suo insegnamento è ancora previsto nei curricula degli studenti di molte scuole e università orientali. Sentire risuonare le pedine di madreperla bianca e di ardesia nera, mentre vengono adagiate sulla superficie cava del campo, è già di per sé un godimento. Ma il go è un duello, che si gioca in due, con pedine bianche e nere, su una “scacchiera” GOBAN ricavata da un unico pezzo di legno pregiato: su di essa sono segnate 19 linee orizzontali e 19 verticali che si intersecano in 361 punti, quelli su cui si sistemano le pedine. Alcune delle intersezioni, indicate con dei puntini neri, sono HOSHI, i punti su cui posare le pietre di vantaggio accordate al giocatore più debole.
Scopo del gioco non è lo sterminio fisico dell'avversario, bensì il controllo di porzioni sempre più ampie di territorio. Le pietre, che una volta posate non si possono più muovere, sono gli elementi necessari alla creazione di delimitazioni di campi di dominio più o meno ampi. Esse godono di una «zona franca» che le circonda: ogni pietra dispone di quattro «libertà», ovvero quattro spazi liberi che la circondano in quattro direzioni; una volta occupati tali spazi da pedine nemiche, si decreta la «morte» della pietra stessa, il che vale anche per i gruppi organizzati di pietre, che muoiono se vengono a perdere tutte le loro libertà. Al contrario, i gruppi di pedine restano «vivi» se divengono imprendibili, il che avviene se riescono a creare configurazioni che contengano spazi vuoti i più ampi possibile, i cosiddetti «occhi».
La vera difficoltà del gioco consiste nel riuscire a comprendere, osservando l'apparente disordine delle pietre disposte sul campo, se le proprie pietre sono vive o morte, o se – con un inevitabile riferimento al paradosso di Schrödinger – si trovano in uno stato critico in cui sono «sia vive sia morte».
«La forza è nella forma» recita una delle massime contenute nel manuale del cinese Sun Tzu intitolato all'Arte della guerra (VI-V sec. a. C.) ed effettivamente la forza del giocatore di go consiste proprio in una sapiente attitudine estetica che gli permette di riconoscere, sul GOBAN, le variegate configurazioni che delimitano i territori propri e del nemico.
Solo un'allenata capacità immaginativa e un esercizio alla meditazione, solo l'abitudine a sapere vedere le cose dall'alto con distacco può aprire alla “visione” del gioco e può svelare i misteri di configurazioni pericolose o vantaggiose che finora erano rimaste nascoste all'occhio ingenuo del giocatore distratto dalla vile bramosia di vincere; solo quando si armerà di pazienza, osserva Perec, «– e qui interviene una difficoltà non sempre colta dalle nostre grossolane menti occidentali – (…), allora egli comincerà a capire perché, poi come, poi quando, bisogna saper interrompere una battaglia locale e accenderne una più lontano, valutare una situazione nel suo insieme, saper scegliere tra possibili mosse, calcolare il proprio anticipo e il proprio ritardo, sapere se si è cacciatore o preda (ma il più delle volte si è cacciatore e preda nel medesimo istante, nel medesimo luogo!)». Per citare ancora Sen Tzu, «sottomettere l'esercito nemico senza combattere è prova di suprema abilità».
Non sarà sfuggito l'uso, nel riferirsi al go, di diverse metafore militari. E in effetti, questa forma ludica amata dalle dame di corte, era praticata anche dai samurai che si esercitavano mentalmente a una strategia di guerra ben diversa da quella concepita dai soldati occidentali, una tattica sottile basata più sulla logica che non sulla forza. Lo stesso attacco di Pearl Harbour, affermano i tre autori del Breve trattato, è frutto di una mossa di go, che ha evidenziato «i rischi di un'eccessiva concentrazione di forze in un'area tagliata fuori dalle basi».