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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2014 alle ore 08:14.

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La portavoce Unesco Isabelle Le-Fournis conferma che «la Cina ha presentato a base della richiesta documenti autentici, rari e preziosi con significato storico, che soddisfano gli standard di applicazione del programma».
La Cina vuol dimostrare che i fatti di Nanchino offendono l'intera umanità e non trecentomila o 167mila morti, ma i diritti del genere umano a che tutto ciò non accada mai più. Quei quaderni ingialliti devono servire alle generazioni future.
Lo zelo nel mostrare e validare la versione cinese sui fatti di Nanchino è tale da spingere le autorità a chiamare a raccolta sul posto anche i giornalisti, in quel Memorial Hall che mette angoscia, costruito proprio sui luoghi dell'eccidio, sulle ossa delle fosse comuni ormai calcificate in un orribile intreccio e mostrate al pubblico attraverso pavimenti di vetro, quasi fossero le vittime dell'eruzione di Pompei ed Ercolano. Ma la violenza a Nanchino è stata opera dell'essere umano, non di un vulcano capriccioso.
I colleghi giapponesi sono la maggioranza e per loro è una prova particolarmente dura, un pellegrinaggio guidato per due giorni tra un luogo e l'altro di una storia che appartiene a un passato per molti di loro ormai troppo lontano nel tempo.
L'acme è la testimonianza dell'ottuagenaria Xia Shuqin, all'epoca dei fatti aveva pochi anni, è l'unica sopravvissuta con Xu Yao, la sorellina più piccola. Shuqin sta rattrappita su una sedia nel centro del piazzale del Memorial, scoppia in un pianto dirotto quando racconta di aver mangiato per giorni solo briciole di riso, la sua voce è un lamento stridulo, reporter e televisioni registrano, filmano, documentano. Poi c'è la visita alla casa di John Rabe, il dirigente tedesco noto come lo Schindler cinese che ebbe un ruolo importante in quei giorni convulsi e che riuscì a portare in salvo decine di cinesi nascondendoli proprio nel suo giardino, rimasto intatto. Era a capo della zona franca, Rabe, e in Cina è venerato come un santo.
Non è semplice, per loro, per i giapponesi. L'imbarazzo viene nascosto dietro una pragmatica assenza, segno di una palese rimozione. Ci sono fisicamente, ma non sappiamo dove siano realmente e non fanno domande, prendono solo appunti anche delle discussioni più accese che nascono durante i vari incontri con scrittori o studiosi cinesi intenti a perorare la causa storica dell'eccidio di Nanchino. Il più aspro è quello con il curatore del Museo della Memoria, Zhu Chengshan, secondo il quale tutto finirà «quando i bambini giapponesi leggeranno cosa davvero è successo a Nanchino nel 1937».
Perchè la Cina vorrebbe dal Giappone la stessa abiura dei tedeschi sull'Olocausto. Vorrebbe che i libri di testo giapponesi contenessero la loro versione e certamente i giornalisti giapponesi con cui visitiamo i luoghi dell'eccidio di Nanchino non hanno studiato sugli stessi libri di storia cinesi nei quali si racconta ancora dei 300mila morti.
Nessun ente mondiale potrà costringerli ad adottare lo stesso libro di testo sui fatti del 1937.
La sensazione, forte, è che nulla più possa riparare quelle ferite. Al rientro da questa discesa agli inferi della memoria, a Pechino, sulla Janguomen, l'arteria principale della capitale, la Storia sbuca ancora, proprio dietro l'angolo.
Perchè ogni giorno un signore con i capelli bianchi aggancia la sua bicicletta a una balaustra e issa un cartellone con la scritta: "I giapponesi hanno massacrato la mia famiglia".
Non chiede soldi. Nessuno gliene dà. La gente gli lancia un'occhiata frettolosa, continuando a parlare al cellulare, distratta dal presente. Passano e vanno. Lui, ogni giorno, sta lì con la sua bicicletta e il suo cartello. Non vuole dimenticare.
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