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Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2014 alle ore 08:15.
«Imparerò meglio", disse l'operaio». Avrebbe imparato meglio a uccidere il nemico, e a ucciderlo a sangue freddo. Questa nell'estate 1945 – all'indomani della Liberazione – la forte chiusa di Uomini e no di Vittorini, primo romanzo della Resistenza italiana. O piuttosto: primo romanzo del gappismo. Non il romanzo di una Resistenza fatta dai partigiani delle montagne, riuniti in banda a respirare già, lassù, l'aria aperta dell'Italia libera. Il romanzo (scritto nel '44, nel pieno dell'occupazione tedesca) di una Resistenza fatta quaggiù, in città come Milano, dai militanti isolati e accerchiati dei Gruppi di azione patriottica: gli interpreti di un terrorismo urbano, clandestino e claustrofobico, che per riuscire tanto più efficace aveva da essere tanto più spietato.
Da allora – per settant'anni – il gappismo è rimasto legato alla dimensione del romanzo (o di un antiromanzo alla Bruno Vespa, distorsivo e criminalizzante) piuttosto che approdare alla dimensione della storiografia. Fino al libro pubblicato adesso da Santo Peli, Storie di Gap, si può dire mancasse qualunque tentativo organico di consegnare alla storia nazionale oltreché alla storia locale i diversi Gruppi di azione patriottica attivi nell'Italia dell'occupazione: dai tre vertici del triangolo industriale a Roma città aperta, attraverso la via Emilia e i ponti di Firenze.
Anche il libro di Peli, in verità, fatica a uscire dal romanzesco. Volendo rimediare all'irrimediabile penuria della documentazione d'epoca (per ovvi motivi, il terrorismo del 1943-45 tendeva a cancellare piuttosto che a disseminare le proprie tracce), Peli compie infatti la scelta di servirsi indifferentemente di fonti d'epoca come di fonti retrospettive. Per lui, una relazione interna prodotta nel 1944 da un capo della lotta clandestina vale a ricostruire la vicenda dei Gap esattamente quanto una pagina autobiografica partorita da un ex gappista negli anni Settanta o Novanta del Novecento. Così la sfera dell'esperienza e la sfera della memoria si intrecciano fino a confondersi, e queste Storie di Gap restano eccessivamente tributarie del romanzo di formazione dei gappisti stessi.
Al netto di un tale limite, il libro di Peli ha il merito sia di seguire il gappismo nella successione delle sue fasi politico-militari, sia di decifrarlo nella varietà delle sue implicazioni ideologiche e morali. Contribuendo a focalizzare, fra l'altro, la questione della "diversità" comunista nella storia della Resistenza. Perché fin dagli esordi, a ridosso dell'8 settembre '43, dire "Gap" significa dire "Pci". Significa evocare i dirigenti di un Partito venuti alla scelta del terrorismo lungo tutto un percorso di apprendistato, prima da volontari delle Brigate internazionali nella Spagna della guerra civile, poi da compagni dei maquisards nella Francia di Vichy. Significa evocare i quadri e i militanti di un Partito il quale – a differenza di altri nella coalizione ciellenista – programmaticamente respingeva la logica secondo cui bisognava rinunciare agli attentati per scongiurare le rappresaglie.
Come ogni terrorismo degno del nome, il gappismo non esitava a mettere in scena la violenza. E metteva in conto di scatenare la violenza dell'avversario, così da alimentare contro di esso un sovrappiù di ostilità. Durante il primo autunno e il primo inverno d'occupazione gli attentati contro l'uno o l'altro obiettivo nemico, un federale di Salò, un console della Milizia, un ufficiale della Wehrmacht, ebbero valore simbolico più che valore militare: servirono a negare che l'ordine nazifascista regnasse incontrastato sulle città italiane. Compiendo in piena luce – per strada, al ristorante, al bordello – un numero sorprendentemente alto di colpi, poche decine di terroristi a tempo pieno (meno di cento in tutto, calcola Peli, all'altezza cronologica del dicembre 1943) mascherarono la realtà di un gappismo che avrebbe poi fallito nel progetto di portare la lotta armata all'interno delle fabbriche.
Entro la primavera del 1944 la prima stagione dei Gap si concluse un po' dappertutto, a Milano come a Roma, a Genova come a Torino. Una varietà di fattori – la leggerezza cospirativa di troppi elementi, l'organizzarsi della repressione nazifascista, la tortura sistematica degli arrestati, con un effetto a catena di nuovi arresti – precipitò la fine della fase più dirompente ed eroica del gappismo. Nell'estate del '44 si aprirà una seconda fase, che già coinciderà con la stagione del declino. Dopo la «svolta di Salerno» e la nascita del «partito nuovo», il comunismo italiano avrà bisogno meno dei Gap che delle Sap: le Squadre di azione patriottica, che Palmiro Togliatti in persona promuoverà quale segno di un intervento delle «masse» nella guerra di liberazione nazionale.
Il sappista sarà, per molti aspetti, agli antipodi del gappista. Non avrà l'obbligo di essere comunista, né di entrare in clandestinità, né di operare da terrorista a tempo pieno. Al contrario, gli si chiederà di combattere part-time. Di giorno dovrà essere un operaio inappuntabile; e nottetempo, o comunque fuori dalla fabbrica, non si pretenderà da lui che pratichi forme di lotta armata. L'autentico scopo delle Sap consisterà nel preparare – all'avvicinarsi dell'ora x – la dinamica politica dell'insurrezione. Anche perciò, dall'estate del '44 alla primavera del '45 il gappismo non riuscirà più a incidere significativamente nella sua cifra originaria di terrorismo urbano. In pratica, risulterà tanto più efficace là dove (come in Emilia, o nella Romagna di Arrigo Boldrini, il mitico Comandante Bulow) uscirà dalle città per radicarsi nelle campagne. Il gappismo trionferà quando rinuncerà a essere metropolitano, elitario, selettivo, per farsi paesano, popolare, diffuso. Trionferà quando rinuncerà a se stesso.