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Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2014 alle ore 08:15.

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Fin dall'autunno 1943, la determinazione con cui i gappisti delle maggiori città italiane avevano preso a colpire i simboli del collaborazionismo di Salò era stata deplorata dai benpensanti, a cominciare dai prelati della Chiesa. Il cardinale arcivescovo di Firenze – ad esempio – aveva pubblicamente lamentato le «uccisioni commesse d'arbitrio» che provocavano inevitabili «reazioni» dei nazifascisti. Si era meritato così la replica severa di Enzo Enriques Agnoletti, massimo dirigente del Partito d'azione in Toscana: «Lei non può ignorare, Eminenza, che in questo momento, in questo stesso istante forse in cui noi scriviamo, o Lei legge, uomini nostri fratelli, creature umane, subiscono torture che fanno vergogna all'umanità. ... Si battono a morte gli arrestati, s'appendono con le braccia legate finché non svengono dal dolore, si traforano con le baionette, si butta loro dell'acqua bollente in bocca. ... Queste cose, Eminenza, durano già da molte settimane e Lei, Eminenza, lo sappiamo, ne è a conoscenza. Non abbiamo inteso nessuna parola di disapprovazione dalle sue labbra».
Di lì a qualche mese la sorella di Enriques Agnoletti, Anna Maria, subì proprio la sorte descritta da Enzo: torturata per giorni da una banda di aguzzini collaborazionisti, morì fucilata il 12 giugno 1944. Senonché proprio a Firenze il gappismo ebbe a dimostrare, tra la primavera e l'estate del '44, tutti i limiti della sua forza. Quando un commando guidato da un operaio comunista – Bruno Fanciullacci – colpì a morte l'intellettuale simbolo del fascismo saloino, Giovanni Gentile, furono i dirigenti stessi del Partito d'azione toscano a deplorare l'uccisione di un vecchio disarmato e senza scorta che non occupava ruolo alcuno nella macchina repressiva. Gentile era stato assassinato da «quattro irresponsabili», sentenziò Tristano Codignola sull'organo dell'azionismo clandestino.
A Firenze se non a Milano, l'«operaio» vittoriniano aveva imparato al meglio – evidentemente – a uccidere il nemico a sangue freddo. Ma la vicenda di Fanciullacci testimonia, per l'appunto, della debolezza del gappismo più ancora che della sua forza. E non soltanto per l'improntitudine politica della scelta di uccidere Giovanni Gentile. Quella del gappista era anche, spesso, improntitudine militare. Arrestato pochi giorni dopo l'attentato a Gentile, e orrendamente torturato, Fanciullacci fu rocambolescamente liberato da un nucleo di gappisti, venne precariamente ricoverato nello studio del pittore Ottone Rosai, e non appena rimesso in piedi venne impegnato in nuove azioni di commando, salvo essere nuovamente arrestato, torturato, spinto al suicidio.
La storia dei Gap è intrinsecamente tragica anche (o soprattutto) per questo: perché i veri gappisti furono sempre maledettamente pochi.
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Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Torino, pagg. 280, € 30,00

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