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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2014 alle ore 15:25.

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Siccome la nuova RaiTre di Andrea Vianello è in crisi di ascolti e di idee, nel 2015 vorrei vendergli un talent a prezzo stracciato. Se richiamano Licia Colò, glielo scrivo gratis. È un'estensione del dominio e della lotta di Masterpiece. Funziona così: cinque intellettuali di cui almeno due del Pigneto dovranno aprirsi un'attività commerciale (un bar, una pizzeria, un'impresa di schizzetti da giardino, scelgono loro). Faranno tutto da soli.

Trovare il locale, ottenere licenza e permessi, mettere il personale in regola e sopportare una pressione fiscale che, come ben sanno, potrà superare il settanta per cento se il più megalomane optasse per grandi impianti, macchinari, capannoni. La finzione narrativa ci farà entrare in empatia con il loro senso del rischio. Si può aumentare la suspense ricordando ogni tanto allo spettatore che l'investimento iniziale finirà nella bolletta col canone. Nel frattempo, si prendono cinque piccoli e medi imprenditori di cui almeno due del Nord-Est. A loro chiediamo di scrivere un romanzo middlebrow.

Generi a scelta, meta-romanzo incluso. Anche qui nessun aiuto. Seguiamo i due gruppi in contemporanea, a botte di split screen tipo 24. Se la Rai fa uno sforzo, diamo la regia di una puntata a Paolo Sorrentino e Matteo Garrone – uno fa i dolly col ralenti sugli intellettuali in fila all'agenzia delle entrate, l'altro filma con la videocamera a mano la nuca sudata degli imprenditori che immaginano trame, narratori intradiegetici, motivazioni dei personaggi. Scopo della gara è vedere se alla fine ci mettono di meno i primi a entrare in depressione, abbandonare il programma e correre ad abbracciare uno a uno gli elettori di Berlusconi, o qualcuno dei secondi a finire in classifica subito dietro Andrea Camilleri e Benedetta Parodi. Lo chiamerei Rehability.

Magari non farà nascere l'amore per i libri, ma in sintonia con la vocazione pedagogica del servizio pubblico il talent servirà a rosicchiare qualche punto nella classifica delle competenze economico-finanziarie dei giovani italiani dove, secondo un rapporto Ocse, dal 2012 a oggi ciondoliamo arroccati al penultimo posto davanti alla Colombia. Al prossimo giro potrebbe esserci lo scontro-diretto. Se perdiamo, chiediamo a Serge Latouche di fare direttamente i sussidiari per le scuole. Stiamo provando a distaccare la Colombia con l'ora di educazione finanziaria. Dal 2006 facciamo anche il Festival dell'economia a Trento. Sorvolando sul fatto che l'ultima edizione era sul bene comune, ancora non riesco a immaginare un ventitreenne di Ragusa che se ne va a Trento col sacco a pelo per sentire Paul Krugman. Mentre ne immagino tantissimi su WhatsApp durante l'ora di educazione finanziaria.

Col talent, offro a Vianello la possibilità di dare una scossa al rapporto Ocse e agli ascolti di RaiTre in una botta sola. Certo, se uno si fissa sulle classifiche che dobbiamo risalire non ne esce più. Questa però non dovremmo sottovalutarla. Qui hanno inizio molte cose. Qui cresce la nebulosa malvagia che circonda le parole “mercato”, “profitto”, “capitalismo”, “imprenditore”. Qui si plasmano i personaggi più spietati della letteratura italiana vivente, delle fiction ambientate a Ponza, del grande cinema di denuncia, delle migliori puntate di Report.

Io non lo so se «gli imprenditori sono gli eroi dei nostri tempi» come dice Matteo Renzi, o se lo siano meno degli operai, come gli risponde Susanna Camusso. Il dato certo è che, diversamente dai loro coetanei olandesi o australiani, la maggior parte dei nostri studenti non ha idea di cosa facciano per fare quello che fanno. «Mi sono documentato con i testi della Bocconi», diceva Walter Siti parlando del suo Resistere non serve a nulla, il grande romanzo italiano sulla crisi finanziaria globale. Un po' come farsi un giro in gondola per scrivere un libro sui misteri di Venezia. È il racconto della «famosa “zona grigia” tra criminalità e finanza, fatta di banchieri accondiscendenti, broker senza scrupoli, politici corrotti, malavitosi di seconda generazione laureati in Scienze economiche e ricevuti negli ambienti più lussuosi… da dove vengono quei soldi?».

Boh. La critica dice che quella di Siti è «una vittoria del linguaggio sul mondo imperscrutabile dell'economia». Poteva aggiungerci, «come confermato dai nostri test Ocse». Che gli intellettuali non abbiano mai provato simpatia per l'economia, il commercio, il mercato, lo sappiamo tutti. Ma alla spiegazione classica, che riconduce il problema all'incomprensione dei meccanismi economici, Robert Nozick aggiungeva il peso della condizione post-traumatica del secchione. «Quando i futuri intellettuali erano a scuola», scriveva in Why Do Intellectuals Oppose Capitalism?, «lo Stato e l'autorità centrale degli insegnanti dissero loro che erano i migliori.

Ma nei corridoi, dove i riconoscimenti non sono centralizzati ma distribuiti secondo l'umore dei compagni, le cose erano più difficili. La più ampia società di mercato avrebbe radicalizzato la lezione dei corridoi. Non soltanto gli intellettuali ignorano in gran parte il funzionamento dell'economia, essi non sopportano che l'economia di mercato non li premi come a scuola». L'equazione tra il male e il denaro è talmente vecchia che ci vorrebbero quattro secoli di Festival dell'economia a Trento e altrettante ore di educazione finanziaria per lasciarcela alle spalle. Però da noi ci vanno giù pesante. Soltanto quel penultimo posto col fiato dei colombiani sul collo permette di sbraitare contro il “liberismo sfrenato” nel Paese che mi nutriva di merendine a partecipazione statale, e non è che fossimo usciti da poco dalla guerra.

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