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Questo articolo è stato pubblicato il 28 dicembre 2014 alle ore 08:13.
L'ultima modifica è del 02 gennaio 2015 alle ore 11:48.

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Commentare l'epistolario fra Paolo Baffi e Arturo Carlo Jemolo espone alla pericolosa tentazione di erigere un'edicola devozionale. E, in effetti, l'enfasi retorica – che sfiora sempre nuovi traguardi nel nulla onnipresente e vorace del discorso pubblico italiano – è il tratto feticistico con cui i protagonisti di un ideale pantheon nazionale sono perlopiù ricordati. A essi si dedica un rito frettoloso che non prelude, non dico all'emulazione, ma neppure a un rispetto che superi la sterile forma. In termini non dissimili si onorano di solito i due protagonisti di questo volume, accomunati da una disciplina professionale e dall'osservanza rigorosa di una religione civile che in Italia non ha mai radunato eserciti. Ma così si rende un pessimo servizio agli uomini, alla capacità innovativa delle loro idee; alla coerenza fra il loro pensiero, la loro azione, la loro comunicazione; al modo esemplare con il quale essi affrontarono la loro complessa vicenda umana. Bene, dunque, ha fatto Beniamino Andrea Piccone, curatore di questa raccolta, a ridare la parola a Paolo Baffi e Arturo Carlo Jemolo, montando la loro corrispondenza con considerazioni equilibrate e note di contesto, che tratteggiano il momento in cui essa cadde. Questo metterci di fronte a un modo di essere di una parte dell'Italia con cui siamo sempre meno abituati a misurarci suscita un'"irrequietezza amara" salveminiana, ma è d'altronde un esercizio storicamente salutare, che rende tangibile come le aspirazioni a un'Italia "possibile" non siano mai davvero giunte a un approdo.
È noto quanto i quattordici anni (1967-1981) in cui i due intrattennero un saltuario ma intenso rapporto – testimoniato qui da trentadue lettere, e interrotto dalla morte di Jemolo – coincidano con un tempo in cui le trasformazioni della società italiana raggiunsero livelli di tensione e di tormento che misero in discussione la tenuta delle istituzioni democratiche e la capacità del Paese di adeguarsi senza traumi tangibili a una modernità che una parte significativa dell'establishment repubblicano fu incapace di maneggiare. Furono anni in cui tra attentati politici, presunti golpe, trame nere e rosse, i due protagonisti maturarono parallelamente un profondo senso di sconforto e crescente sfiducia, e, in definitiva, di estraneità nei confronti del Paese che aveva tradito le aspirazioni di almeno due generazioni. Tutto ciò è presente nello scambio fra due persone che si erano identificate con l'ambizione di contribuire a una rigenerazione dell'Italia che la «mantenesse uguale tra uguali, nel consorzio delle nazioni civili». Un Paese che per mano di alcuni suoi spregiudicati esponenti avrebbe fatto strame dei vastissimi meriti di Baffi, trasformandolo nel capro sacrificale di una catena di malaffare contigua al potere politico dominante e con esso collusa.
Il rosario degli eventi è conosciuto. Preceduti da una grandinata di articoli apparsi sul «Fiorino», sul «Borghese» e sul «Secolo d'Italia», tesi a screditare la neutralità della vigilanza della Banca d'Italia, il 24 marzo 1979 i Carabinieri entrarono a Palazzo Koch per arrestare Mario Sarcinelli, e notificare a Baffi l'incriminazione per interesse privato in atti d'ufficio e favoreggiamento. L'accusa, dimostratasi del tutto inconsistente, era di aver «chiuso gli occhi» sui prestiti alla Sir di Nino Rovelli da parte dell'Imi e del Credito Industriale Sardo. Quel castello di illazioni era la coda operativa, l'approdo di una serie di tentativi messi in atto non dal terrorismo o da altre trame eversive ma da un'oscura e pervasiva ragnatela d'interessi che intrecciava alte cariche di governo, magistrati, esponenti della Curia romana. Interessi disposti a sacrificare una delle pochissime istituzioni del Paese d'indiscusso credito internazionale pur di fermarne la vigilanza e bloccare i due uomini che interpretavano con il massimo rigore quella funzione. Gli uomini che ostacolavano i disegni criminali e gli interessi finanziari dei Sindona e dei Calvi e quelli riconducibili, più in generale, al sistema di potere P2.
Quella «sconfitta della ragione» è vissuta come mortificante da un uomo la cui sola presenza scoraggiava – lo ricorda Carlo Azeglio Ciampi – ogni superficialità e innalzava la soglia della valutazione morale e professionale degli uomini. «La firma della lettera di sospensione a Sarcinelli – scrive Baffi – è l'atto più avvilente al quale sia stato chiamato nella mia vita».
Il contegno con cui Baffi patì quell'incriminazione, che lo avrebbe portato a rinunciare alla carica di Governatore nel timore che la Banca risentisse della vicenda, ne accrebbe la figura ma rafforzò lo straniamento dalle istituzioni che consentirono un simile attacco. Fu l'umiliazione di una probità mai discussa, uno schiaffo al modo di essere e di agire di chi aveva nel rispetto delle regole la sua unica guida. Tutto ciò trovò negli scritti giornalistici di Jemolo un'eco immediata e una condanna che commosse Baffi, il quale lo considerava «la più alta autorità morale e fonte di ispirazione vivente in questa Italia» (1° giugno e 18 ottobre 1979). E le tredici lettere del periodo che videro Baffi coinvolto nel kafkiano procedimento testimoniano la consentaneità di giudizio e contribuiscono a riconoscere reciprocamente non un primato morale (che nessuno dei due andava cercando) ma la convinta adesione a un'Italia «pulita e non stupida» che pure esisteva, e che sebbene "imbelle" era ancora "numerosa" (4 gennaio 1980).

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