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Grande Pablo Larraín: «El club» da Orso d'oro

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festival del cinema di berlino

Grande Pablo Larraín: «El club» da Orso d'oro

Il film più importante visto fino a oggi a Berlino: «El club» di Pablo Larraín si candida come uno dei grandi favoriti per la vittoria dell'Orso d'oro. Presentato nel giorno in cui il concorso tedesco è al giro di boa, il nuovo lungometraggio dell'autore cileno colpisce fin dal notevole soggetto di partenza. Un gruppo di preti vive, insieme a una suora, in una casa vicino al mare. Si tratta, però, di una casa di penitenza dove redimersi dai propri peccati. Un giorno, alla piccola comunità si aggiunge un altro sacerdote, seguito da un uomo che gli urla contro pesanti accuse. Le conseguenze saranno terribili.

Dopo la trilogia sulla dittatura di Pinochet («Tony Manero», «Post mortem» e «No»), Larraín firma un'altra pellicola impegnata, dura e in grado di scuotere a fondo. Questa volta il bersaglio è la chiesa cattolica (di cui “il club” è un'esplicita allegoria), ma le riflessioni spaziano anche sul senso di colpa, sulla solitudine e su una serie di controverse scelte morali. Attraverso una messinscena rigorosa e potente al tempo stesso, il regista riesce a realizzare diversi momenti di grande cinema, in particolare in una lunga sequenza in montaggio alternato posizionata subito prima del finale. Notevole e sorprendente l'intero cast, capace di regalare una serie di performance davvero impressionanti.

Decisamente meno memorabile è «Body» della polacca Malgorzata Szumowska. Protagonista è un uomo, coroner di professione, rimasto vedovo e preoccupato per la figlia che soffre di anoressia. Alla ricerca di aiuto, proverà a farla entrare in una clinica specializzata. Uno spunto indubbiamente significativo per una pellicola che, purtroppo, fatica a mantenere le interessanti premesse iniziali. Aperto da un incipit suggestivo, finisce presto per rimanere vittima di un andamento altalenante e di una serie di scelte (la conclusione in primis) discutibili e non sempre centrate. La regista tenta spesso la carta dell'ironia, forse per sdrammatizzare, ma finisce per rendere troppo superficiale il risultato finale. Aveva fatto di meglio con il precedente «In the Name Of», presentato a Berlino nel 2013.

Infine, sempre in concorso ha trovato posto «As We Were Dreaming» del tedesco Andreas Dresen. Siamo a Lipsia, durante il periodo di riunificazione delle due Germanie. Per un gruppo di giovani è tempo di nuovi sogni e di nuove speranze, ma realizzarli non sarà così semplice. Già vincitore di un premio a Berlino nel 2002 con «Catastrofi d'amore», Dresen ci riprova con una storia dal forte respiro storico, raccontata in flashback, che alterna diversi piani temporali. Il ritmo è buono e le idee visive non mancano, ma la struttura drammaturgica segue linee un po' troppo scontate e di colpi di scena non c'è nemmeno l'ombra. Nulla più che un compitino ben eseguito, con una confezione discreta e una sceneggiatura solida nella sua (eccessiva) semplicità.

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