Cultura

Expo 2015, il buon mangiare nella versione di Elio Sironi

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CUCINA

Expo 2015, il buon mangiare nella versione di Elio Sironi

Elio Sironi è appassionato e intenso, ma la caratteristica che meglio lo rappresenta è quella di essere da sempre un pioniere della cucina. E' il 2003 quando - dopo aver lavorato in giro per il mondo - il sodalizio con Bulgari segna il suo ingresso tra i fornelli dell'hotel milanese della storica maison, dando inizio alla tendenza - da quel momento in continua ascesa - di introdurre la cucina di qualità sulla scena della ristorazione d'albergo meneghina. Ci ha illustrato la sua visione di Expo 2015 davanti ad un caffè, al Ceresio 7, sulla terrazza panoramica dell'ex palazzo dell'Enel - ora sede della maison DSquared2 - che dal 2013 è la sua nuova scommessa vincente.

«Nutrire il pianeta per me significa tante cose. Mi auguro che all'Expo ci sia un messaggio chiaro per far capire alla gente che mangiare bene si può. Questo è il mio lemma, che mi accompagna in questi ultimi tempi. E' un modo nuovo di vivere la qualità, è il giusto rispetto tra uomo e ambiente, tra consumi e produzione. Far capire finalmente alla gente che è la qualità che vince. Io mi aspetto che l'Expo insegni questo. Se tu pensi che nella maggior parte dei paesi maggiori produttori di riso una larga fetta della popolazione muore di fame, si capisce quanto sia importante educare all'alimentazione. Expo ha il dovere di fare questo»

Quale sceglierebbe tra i suoi piatti per esprimere questo tema e perché?
«Ne potrei scegliere più di uno perché ogni piatto porta un messaggio, un incontro di culture. Per me ogni piatto rappresenta un racconto, una storia. Un cuoco dialoga con il cliente attraverso il piatto, qualsiasi frammento che entra nel piatto matura, e diventa esperienza. Sotto un certo aspetto in cucina è già stato inventato tutto. Mettere la “tua” esperienza nel piatto credo sia la differenza tra uno chef e l'altro»

Se devo sceglierne solo uno ti dico il mio “spaghetto”. Alla fin fine noi siamo identificati per la pasta in Italia e credo che nessuno sappia trattare la pasta come noi. Il rispetto che abbiamo per questo piatto è quasi una forma sacrale. Il mio spaghetto al pomodoro, con la buccia di limone che gli da quel tocco un po' più internazionale, e il formaggio di capra che metto.

Quando ha capito che sarebbe diventato uno Chef?
«Io non l'ho mai capito! Ho sempre seguito il mio istinto, la mia passione che è sempre stata questa fin da quando ero piccolo. Mi ricordo che mentre i miei fratelli andavano all'oratorio a giocare a pallone io rimanevo attaccato alle gonne della mamma a fare i biscotti in casa. Ero più attratto dalla farina e dalle uova che dalla palla. Credo di avere seguito sempre il mio intuito che mi ha portato a scegliere. Il rapporto che si ha con questo lavoro è come quello con un bel quadro di cui ci si innamora; è lui che sceglie te, non è mai il contrario»

Tre aggettivi per definire la sua cucina?
«Buona, semplice, esigente.
La semplicità non è banale. Non tutti la conoscono ma è la cosa più difficile sotto un certo aspetto, perché le cose semplici alla fin fine la raccontano lunga; rappresentano un percorso di saggezza di cose che tu hai visto, hai vissuto»

Cosa non manca mai nei suoi menù?
«La provocazione. Un piatto ti deve provocare ancor prima di vederlo, già mentre leggi il menù. Non deve essere una lettura lunga che ti impegna – se voglio leggere un libro me ne sto a casa mia – ma quelle quattro parole che ti descrivono un piatto in un modo incapricciante. Poi ci vuole un pizzico di trasgressione e di audacia. Ovviamente anche senza olio non potrei cucinare!»

Il suo rapporto con stagionalità e cucina a km “0”...
«Vado daccordissimo con la stagionalità. Devi sapere che prima di cominciare questo lavoro ho fatto il fruttivendolo in una sorta di quei piccoli supermercati dove si vendeva un po' di tutto, dai salumi e formaggi alla frutta. La stagionalità è fondamentale anche rispetto al discorso di creare un equilibrio tra le risorse e l'ambiente. Il Km 0 invece mi limiterebbe molto. Io amo tutto ciò che è buono; anche se arrivasse dalla luna per me deve essere sul piatto.
Soprattutto a Milano è difficile rispettare il Km 0 perché ti arrivano prodotti da tutto il mondo. Quando tu vai al mercato sei talmente rapito da questi gioielli che a volte vorrei un menù più lungo per poter esprimere più cose! Il km 0 non mi appartiene, mentre la stagionalità la seguo sempre»

Un piatto etnico che ha provato in giro per il mondo e ancora ricorda con piacere?
«Grazie a Dio ho lavorato in tutti i continenti, dall'Australia all'Africa. A vent'anni ho avuto la fortuna di lavorare a Tokyo che, ad oggi, come città è stata quella che mi ha dato l'impatto più forte e dei ricordi emozionali legati tanto al cibo tanto a una metropoli allora popolata da dodici o tredici milioni di abitanti che mi sembravano tantissime formiche che camminavano per strada. Se chiudo gli occhi mi torna alla mente l'odore di queste strade dove le spezie si insinuavano ovunque. Io amo moltissimo le spezie. Ho un ricordo vivido di un baracchino dove andavo a mangiare delle alette di pollo coperte di spezie. Ricordo la curcuma, il cardamomo, lo zenzero; erano croccanti, quasi bruciate, ma il loro sapore mi rimarrà per sempre impresso nella memoria»

Il suo “cibo da strada” preferito?
«Quando lavoravo al Principe di Savoia, dietro l'hotel c'era il luna park delle Varesine e andavo lì a mangiare le frittelle. Amo moltissimo i mercati di strada e anche oggi quando ci vado e sento l'odore di frittella seguo la scia che sembro un cane da tartufo! E' bello anche guardare la preparazione: quando le metti nell'olio e cominciano a gonfiarsi e sfrigolare e quando le passi nello zucchero che ti rimane sulle mani anche dopo averle mangiate. Torni a casa portandoti appresso l'odore di quella frittella. Non importa quanto abbia mangiato, un posticino per la frittella lo trovo sempre»

Per quale ragione un visitatore di Expo 2015 dovrebbe fare tappa da Ceresio 7 prima di ripartire?
«Parto dal presupposto che il cibo suggella gli incontri. Ceresio 7 incarna un concetto a cui tengo molto: sentirti dentro in un luogo aperto. Qui si fondono tre cose fondamentali: arte, incontri e internazionalità. Quando tu riesci avere questi tre ingredienti in un ristorante si crea una sorta di magia. Arte perché la cucina sotto un certo aspetto è una forma d'arte, nel giusto rispetto tra l'esigenza della materia prima e il consumo. Incontro perché oggi il ristorante attraverso il cibo è punto d'incontro di cultura e di gente. Internazionalità perché secondo me in questo momento è il locale più internazionale nel panorama milanese. Qui sei dentro una bella scatola, ma nello stesso tempo ti senti in mezzo al mondo. E' un concetto contorto ma affascinante; essere isolato, all'ultimo piano ma entrare e respirare un'atmosfera internazionale dove si fondono diverse culture.

A volte la sera quando sono stanco faccio un giro al bar perché mi piace sentire parlare in tutte le lingue. La mia stanchezza scompare e mi faccio trasportare da quell' energia che crea una miscela magica»

Se non avesse nemmeno un tavolo libero dove consiglierebbe di andare?
«In piscina! Qui ne abbiamo due.
Scherzi a parte, sono tanti i colleghi che potrei menzionare perché la ristorazione a Milano è a un livello molto elevato. Molti sono anche qui vicino perché questo quartiere, che incarna la nuova skyline della città, è in piena evoluzione. Un cliente che viene da noi oltre a voler mangiar bene cerca un determinato tipo di locale perché ama la confusione allegra, quindi consiglierei una tipologia di locale simile a noi come la Terrazza del “Brian&Barry” o da Armani. Per chi invece è alla ricerca di un' esperienza prettamente culinaria i nomi da fare sono altri e a Milano abbiamo star a livello internazionale, come Carlo Cracco o Andrea Berton che è anche qui a due passi. Il Vun di Andrea Aprea è fantastico, oppure il Bulgari. Sergio Mei apre a maggio il suo ristorante. Personalmente io amo molto anche i ristoranti tipici dei Navigli o di Brera»

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