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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2015 alle ore 08:14.
C’è qualcosa di grandioso anche nella banalità se basta andare alla Gare du Midi, prendere un autobus extraurbano con un biglietto da tre euro, attraversare per 45 minuti una quindicina di chilometri della cintura meridionale di Bruxelles, fermata dopo fermata – pendolari e studenti che scendono e salgono – e arrivare al campo di battaglia di Waterloo. Si scende alla fermata di Hameau du Lion, poco prima della Brasserie Napoleon e di un inopinato Fuji, ristorante giapponese. Una breve passeggiata sul cavalcavia sopra l’autostrada per Nivelles e lungo la rue du Lion. Ed ecco, sulla destra, il luogo, la battaglia delle battaglie, la Storia.
«Fu la faccenda più maledettamente disperata che mi fosse mai capitata», è stata la sintesi del duca di Wellington, incerto se far prevalere l’innata presunzione o l’onesta rappresentazione degli avvenimenti. «Non ho mai avuto problemi così gravi in una battaglia né ho mai rischiato tanto di perdere». Napoleone ne avrebbe scritto a lungo nella solitudine di Sant’Elena, addossando ai suoi generali più che al destino, le responsabilità della sconfitta. Era il 18 giugno del 1815, duecento anni fa, in un 2015 di grandi ricorrenze belliche: i cento della Prima guerra mondiale, i 70 della fine della Seconda.
Tutto qui attorno, nella sovrapposizione della Storia. A Ovest di Waterloo ci sono le trincee delle Fiandre: Cambrai che fu il quartier generale di Wellington e dove, nel 1918, gli inglesi cambiarono le battaglie mettendo in campo i primi carri armati. Poco più lontano Ypres: è lì che il 22 aprile 1915 i tedeschi usarono per la prima volta i gas. A Sud Nivelles, rasa al suolo alla fine del 1944. E Bastogne, circondata dai nazisti fino al 26 dicembre di quello stesso anno. A Waterloo, all’offerta inglese di resa il generale Cambronne della Vecchia Guardia rispose: «Merde». A Bastogne, all’offerta tedesca il generale McAuliffe della 101^ aviotrasportata americana, rispose: «Nuts, palle».
L’epica di Waterloo è quella delle battaglie di un tempo, che incominciavano alle prime luci dell’alba e per l’ora di pranzo erano terminate. Da una parte 124mila francesi, dall’altra 106mila anglo-olandesi-hannoveriani. A causa delle forti piogge notturne che avevano trasformato la piana in un mare di fango, a Waterloo lo scontro incominciò alle 11.30 e terminò col buio, alle 20.15 quando Wellington in persona guidò l’avanzata generale verso le linee francesi in fuga. L’apice della battaglia era stato alle 16, quando il maresciallo Ney aveva lanciato verso le posizioni inglesi i curassiers, seguiti dalla cavalleria più leggera di Lefebvre-Desnoettes: una carica di 9mila cavalli e 67 squadroni. «Awful grandeur», avrebbe ricordato un ufficiale inglese. Dopo 12 inutili assalti, la cavalleria di Ney s’infranse sui quadrati della fanteria che Wellington aveva subito ordinato di formare nella piana. Il fango e il ritardo costò caro a Napoleone che aveva in pugno la battaglia. «Datemi la notte o i prussiani», gridò Wellington disperato. Arrivarono da Est i 117mila prussiani di Gebhard von Blucher, al tramonto, e per l’Empereur non ci fu nulla da fare in un’epoca nella quale il numero contava più della tecnologia distruttiva delle armi.
«Per migliaia di anni una battaglia, per quanto grande, era sempre stata una questione di ore», scrive in La Prima Guerra Mondiale (Rizzoli 1968) lo storico militare Basil Liddell Hart. Ma a partire dal 1915 «lo standard diventò di mesi». Vedun iniziò il 21 febbraio e finì il 15 dicembre 1916, senza stabilire un vincitore né un vinto. Le battaglie di Ypres furono tre. L’ultima, chiamata di Passchendaele, iniziò il 31 luglio 1917 e finì il 6 novembre con mezzo milione di morti. «Da tempo – scrive ancora Liddell Hart – il conflitto era entrato nella più ampia sfera di una lotta fra popoli dominati da istinti primitivi e incatenati nei loro stessi slogan». Guerre fra eserciti popolari a coscrizione obbligatoria.
Waterloo fu l’atto finale di un conflitto di 23 anni «tra contrastanti politiche governative» elitarie, combattuto da nobili, professionisti della guerra e volontari. Se non sparavano a raffica ad alzo zero, i cannoni erano imprecisi; e il più abile dei fucilieri riusciva a caricare il suo moschetto solo tre volte al minuto, senza prendere la mira. Contava la bellezza delle divise, non la loro funzionalità; la gloria, non l’ideologia, anche se in fondo l’imperialismo napoleonico rappresentava ancora gli ideali della Rivoluzione.
Solo 39 anni più tardi nel conflitto di Crimea, il primo inviato di guerra, William Russel del Times, avrebbe svelato che anche quelle belle battaglie non erano altro che «sangue, fango e merda». A Waterloo morirono 32mila uomini e migliaia di altri nei giorni seguenti a causa delle ferite e dell’assenza di penicillina. La fine dell’epoca napoleonica garantì quasi mezzo secolo di pace. Forse se avessero vinto i francesi molti regni sarebbero crollati prima, forse le Costituzioni avrebbero fatto dell’Europa un continente democratico con un secolo d’anticipo. Ma è passato troppo tempo per definire l’impatto di quella battaglia sul nostro destino attuale.
Il campo di battaglia è dominato da una collina di 40 metri e 225 gradini con la statua di un leone sulla cima, l’Hameau du Lion che nel 1825 il re d’Olanda fece erigere dove suo figlio Guglielmo era stato ferito dai francesi. Probabilmente è anche dove la carica di Ney s’infranse contro i quadrati inglesi. Ma i 390mila metri cubi di terra raccolti per costruire la collinetta hanno mutato il luogo. «Hanno alterato il mio campo di battaglia» fa dire Victor Hugo a Wellington, nei Miserabili.