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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2015 alle ore 08:14.

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Una visita al Warburg Institute, «dove ‘l sì suona», perché qui, nel cuore di Bloomsbury, si parla anche italiano, mi ha fatto capire perché questa piccola gloriosa istituzione l’ha avuta vinta nella causa che la opponeva alla University of London, di cui pure fa parte. Erano stati gli amministratori dell’università a promuoverla circa un anno fa ( ma la diatriba si trascinava da molto tempo), con l’intento di rivedere i termini di un accordo, stipulato nel 1944, in piena guerra mondiale, con gli eredi Warburg, che garantiva la continuità della gestione della biblioteca, trasferita a Londra, dall’originaria Amburgo, già nel ’33, subito dopo l’avvento di Hitler, secondo i criteri voluti dal fondatore Aby Warburg (1866-1929). A seguito dei tagli di budget imposti dal governo, l’obiettivo dei manager, che già imponevano all’istituto un canone d’affitto proibitivo, era quello di unificare il sistema bibliotecario con quello vigente universitario, che avrebbe di fatto cancellato l’identità del Warburg e disperso i 380mila volumi, legati tra loro secondo principi immutati “di buon vicinato”, in un alienante ordine alfabetico. La sentenza del giudice, signora Sonia Proudman, del novembre 2014, favorevole al Warburg, poneva fine alla querelle che aveva provocato un’imponente mobilitazione di studiosi di tutto il mondo (“Save the Warburg”), disposti, quelli americani, a trasferirlo in Usa pur di sottrarlo alla miope austerità britannica. Un’austerità che, come in altre parti d’Europa, tende a colpire soprattutto la cultura, meglio se di connotazione umanistica.

Il Warburg, come è noto, è la mecca degli storici dell’arte e della cultura, in particolare del Rinascimento, ma vi possono trarre vantaggio anche i cultori di antropologia, etnologia, folklore, filosofia, psicologia, cabala, astrologia... tutte discipline che Aby Warburg, scevro di impicci accademici, ha attraversato e, spesso genialmente, intrecciato. La struttura tematica della biblioteca, la sua topografia, distribuita su quattro piani, riflettono il suo progetto multidisciplinare: segnaletica evocativa, luci a comando, stretti corridoi di scaffali aperti dai quali è possibile estrarre qualunque libro (nulla a che vedere con le usuali tantaliche ermetiche vetrine/gabbie): un labirinto nel quale è dolce perdersi, assistiti, all’occasione, da sapienti, affabili bibliotecari, tutti professori di prima fascia, come i colleghi docenti.

Aby, la cui autocertificazione, redatta in italiano, recita “Amburghese di cuore, ebreo di sangue, d’anima Fiorentino”, rampollo di una dinastia di banchieri le cui origini sembrano risalire al ghetto di Venezia, abbandonato nel ’600 a seguito di un sussulto di inospitalità della Serenissima, a 13 anni aveva già chiaro il suo destino, quando vende la sua primogenitura al fratello Max, di un anno più giovane, in cambio di libri, tanti libri, tutti i libri che gli sarebbe venuto in mente di comprare. Era anche un po’ matto Aby, se pure il disturbo che per ora avverte è la sensazione di avere la testa di Giano, quasi una premonizione se si pensa al suo percorso intellettuale sempre conteso tra logos e magia. Fin dalla sua tesi di laurea, dedicata al Botticelli della Nascita di Venere e della Primavera, nell’ultimo decennio dell’800, e poi nella memorabile conferenza a Roma del 1912 sul Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, Warburg ci impone una lettura diversa dei capolavori dell’enigmatico Sandro e dei ferraresi del Cossa e Cosmè Tura. Contrariamente al Rinascimento suggestivo ma senza prospettive di Jacob Burckhardt, e a integrazione della visione del connoisseur, al quale importa “chi ha dipinto cosa quando”, Warburg rincorre il dettaglio e il suo significato nel contesto culturale del suo tempo, i simboli, le immagini (icone) che rimbalzano, senza soluzione di continuità, dall’arte classica, attraverso il Medioevo, fino al presente; come la Ninfa, raffigurazione dell’estasi, e il Dio Fluviale, della melanconia. Indaga le fonti letterarie, il briefing del Poliziano per l’esecutore Botticelli e le ascendenze orientali dello Zodiaco dei ferraresi; i documenti dei committenti, i Medici, i Tornabuoni, i Sassetti, tutti banchieri, come i suoi familiari. Nasce l’“iconologia”, che uno dei suoi primi seguaci, Erwin Panofsky, traghetterà poi all’università come “iconografia”. Per illustrare le sue teorie, Warburg si è munito di una serie di pannelli, rivestiti di panno nero, sopra i quali ha incollato una serie di riproduzioni di opere d’arte, in apparente libera associazione: è il primo nucleo di Mnemosyne, il Bildatlas con il quale intendeva raccontare la storia dell’arte “senza parole”. Di quella conferenza abbiamo una testimonianza di Kenneth Clark, che poi diventerà un suo grande divulgatore, allora pupillo di Bernard Berenson, incantato dalle doti mimetiche di Warburg che, nel citare i testi degli autori ne evocava la presumibile dizione, come l’enfasi penitenziale del Savonarola o la scaltrita eleganza cortigiana del Poliziano.

Ma la felice, estatica immersione nell’arte e nella cultura italiana di lui, profondamente tedesco, dovette subire un brusco trauma all’annuncio della prima guerra mondiale. I pochi mesi che separano l’ingresso nel conflitto dell’Italia, accanto ai nemici di Germania e Austria, lo vedono febbrilmente impegnato nel tentativo di coinvolgere gli amici italiani in una campagna a favore della neutralità. Poi il crollo degli Imperi Centrali, la volatilità della Repubblica di Weimar, l’onda montante dell’antisemitismo, se non distraggono Warburg nel suo lavoro di consolidamento organizzativo della Biblioteca e di adesione alla nuova Università di Amburgo, aggiungono fragilità al suo equilibrio psichico. Nella primavera del ’21 è costretto a farsi ricoverare nella clinica svizzera di Ludwig Binswanger, il terapeuta di formazione junghiana e filosofo, vicino a Husserl e Heidegger; una scelta felice se la guarigione, in capo a tre anni, avverrà con la piena collaborazione del paziente e con il seguito di un’amichevole corrispondenza. Nella fase finale della degenza, Aby tiene in clinica una conferenza sul Rituale del serpente, frutto dei suoi studi sul campo in Arizona, presso gli indiani Hopi, a fine ’800, quando si rammaricava che Nietzsche, il suo nume tutelare, non si fosse mai occupato di antropologia e di folklore. In clinica riceve anche Ernst Cassirer, il filosofo contemporaneo a lui più affine e sodale, che lo aggiorna sulla pubblicazione della sua Filosofia delle forme simboliche; Cassirer, che diventerà, su indicazione di Warburg, professore e poi primo rettore dell’Università di Amburgo, darà il suo autorevole appoggio all’Istituto, dopo la scomparsa di Warburg, fino al 1933, quando anche lui, ebreo, sarà costretto a emigrare.

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