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Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2015 alle ore 08:13.

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Nella mostra Serial Classic che inaugura l’attività espositiva della Fondazione Prada a Milano, inquadrata dalla forte architettura di Rem Koolhaas con la sua schiuma di alluminio e il pavimento in travertino iraniano, s’intesse un’inedita conversazione sul colore del bronzo. I tre interlocutori, che documentano altrettanti esperimenti di ricostruzione del possibile aspetto dei bronzi di età classica, sono un rifacimento del Doriforo di Policleto in bronzo nerastro (approntato a Stettino nel 1910 da Georg Roemer, un allievo di Adolf von Hildebrand), un gesso ricoperto di lamina metallica dorata (datato 1991) che replica l’Apollo di Kassel lì a fianco, prezioso prestito da quel Museo, e infine un bronzo appena allestito (2015): la fedele ricreazione cromatica del bronzo di Riace A. Opera di Vinzenz e Ulrike Brinkmann che al Liebieghaus di Francoforte sono l’anima della più avanzata ricerca sul colore dei bronzi antichi, il neo-bronzo di Riace stupisce per l’aspetto singolarmente e quasi brutalmente vitale. In luogo della patina verdastra che il tempo e il mare hanno depositato sull’originale conservato a Reggio Calabria, questo corpo atletico ha una pelle naturalisticamente “abbronzata”, come la carne di un marinaio esposta al sole e al vento; e vi abbondano i dettagli policromi, da quelli già nell’originale (denti d’argento, capezzoli e labbra di rame) a quelli ricostruiti (elmo, scudo e lancia in bronzo dorato). Una vivacità disturbante, una declinazione inattesa dell’arte classica. Gli originali dei tre bronzi furono creati a metà del V secolo a.C. da tre artisti di prim’ordine: il Doriforo da Policleto, l’Apollo da Fidia, il Riace “A” - l’unico conservato in originale - da uno scultore non identificato (si sono fatti, tra gli altri, i nomi di Fidia e di Mirone). Visti insieme, hanno un’aria di famiglia, perché si rifanno a una formula rappresentativa del corpo maschile glorificato nel bronzo in nome dei valori etici che rappresenta; ma si distinguono per i dettagli, gli attributi, il contenuto narrativo che ne giustifica le diverse modalità rappresentative: è sul filo di queste distinzioni che si gioca il linguaggio (lo “stile”) di ogni artista.

La policromia di marmi e bronzi antichi è oggi una delle frontiere della ricerca archeologica; ma Brinkmann ha formulato anche (nel catalogo Serial/Portable Classic, edito da Fondazione Prada) un’ipotesi forte sull’identità dei bronzi di Riace e sulla possibile attribuzione. Punto di partenza è una certezza metodologica: l’identificazione dei personaggi rappresentati va fatta sulla base dei loro dettagli specificamente narrativi, e la ricostruzione sperimentale in bronzo serve anche a questo. Il bronzo A, si vede così, indossava un elmo corinzio, riportato indietro sulla fronte in modo da rendere visibile in tre punti il diadema regale che gli cinge la capigliatura. Teneva saldamente nella destra una lancia poggiata sull’avambraccio, e impugnava con la sinistra un pesante scudo rotondo (oplon). La bocca semiaperta, che scopre l’argenteo biancore dei denti, e la lieve torsione del volto indicano che era in forte interazione con un altro personaggio, a cui si rivolgeva con attitudine spavalda e dominante.

Se questo è vero, la prima verifica da fare è ovvia: il bronzo di Riace “B” può essere stato in antico in relazione narrativa con “A”? Anche in questo caso, mancano copricapo, armi e scudo: ma fortunatamente ve ne sono tracce significative, a partire da due placchette in rame sulla testa, coperte da una fitta puntinatura e finora non ben spiegate. L’analisi di Brinkmann porta a una conclusione molto attraente, che dà ragione di queste placchette e della loro singolare zigrinatura: il Riace B indossava un copricapo raro ma ben documentato, la cosiddetta alopekis o berretto di pelle di volpe, che lasciava intravedere, dalla bocca aperta della volpe, una sottostante calotta di cuoio, rappresentata appunto dalle placchette. Se questo è vero, prendono vita altri dettagli inspiegati del Riace B, come un sostegno sulla spalla sinistra, forse destinato a fissare una delle zampe della pelle di volpe (in argento?) che fluttuava nel moto della testa, volta - come tutto il corpo, e lo mostra l’inclinazione dei piedi - verso destra. L’alopekis è copricapo tipico dei Traci, e come tale dà un indizio sull’identificazione del personaggio, confermato dalle armi che portava: secondo Brinkmann, un’ascia bipenne nella destra, nella sinistra forse un arco e una freccia, accompagnati da uno scudo leggero (pelta). Chi concepì i due bronzi si sforzò dunque di caratterizzarli, mediante i copricapi e l’armamento, come due ben distinti eroi di rango, un Greco e un Trace.

Se proviamo a pensare che i due bronzi stessero insieme in antico, c’è una sola coppia mitica che risponde a queste caratteristiche: Eretteo, re di Atene, e il suo avversario Eumolpo, figlio di Poseidone. La loro lotta (la «guerra di Eleusi»), ricordata anche da Tucidide e forse rappresentata in una metopa del Partenone e nel fregio del tempio di Efesto, riprende il tema del frontone occidentale del Partenone: la contesa per il possesso dell’Attica. Da Pausania (II sec. d.C.) sappiamo che sull’Acropoli di Atene c'erano «due grandi statue di bronzo, che rappresentano due uomini disposti a battaglia, e li chiamano l’uno Eretteo e l’altro Eumolpo». Saranno proprio i bronzi di Riace? Ci muoviamo sul terreno delle congetture, ma di congetture basate sull’interpretazione storico-artistica di dati archeologici (tra archeologia e storia dell'arte non c’è opposizione ma continuità). E allora può forse tentarsi un passo ulteriore: Pausania, che compose prima il libro I della sua opera, dedicato all’Attica, e poi gli altri nove, via via che andava avanti faceva “aggiunte e correzioni” alla sua Descrizione della Grecia. Fra queste, la precisazione che «un Dioniso sull’Elicona è, fra le statue di Mirone, la più degna di esser vista dopo l’Eretteo che è ad Atene» (libro IX). Ad Atene c'era un’altra statua di Eretteo (nell’agorà), ma se quella del IX libro è l’Eretteo dell’Acropoli, per il bronzo “A” avremmo l’attribuzione al sommo bronzista Mirone, autore del Discobolo. Ed è interessante che questa attribuzione sia stata avanzata (1984), su basi stilistiche, dall’archeologo greco Georgios Dontàs; e che da poco Giuseppe Pucci abbia proposto l’attribuzione a Mirone del “Riace A”, identificandolo però come il Tideo descritto in un epigramma di Posidippo (III secolo a. C.) restituito da un papiro dell’Università di Milano.

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