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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2015 alle ore 08:14.
Noo descrive l’eroe ogone nel privato, con l’affetto ma anche la spietatezza di cui è capace solo una figlia (già nelle prime pagine lo presenta come bigamo) mentre al racconto di viaggio si sovrappone il memoir, la storia famigliare e quella della nazione, e offre un ritratto capace di non appiattire troppo la complessità di una federazione dalla storia difficile e tormentata, composta da svariate lingue, culture, religioni sempre più totalizzanti e pervasive.
Alla fine del suo girovagare durato alcuni mesi, Noo capisce che le abominevoli vacanze nigeriane, le pruriginose notti tropicali dai parenti, l’obbligo di scrivere temi sulle impressioni suscitate dalla terra avita che le infliggeva suo padre erano stati «un addestramento necessario, briciole di pane che servivano a tracciare il sentiero tra il mio villaggio e la mia vita da esule». Un sentiero che ora avvicina a quel mondo anche i lettori.
Così quando, cercando ancora di stuzzicare la sua imperturbabilità, le chiediamo cosa pensa di come gli italiani trattano i nigeriani, anche prendendo spunto da un personaggio del suo libro, Noo prima cerca una risposta diplomatica, dicendo che i nigeriani trovano la vita in Italia molto dura, hanno un’esistenza ai margini: «Il problema è che la percezione del Paese ospite è legata al tipo di lavoro che fanno gli immigrati, e in Italia sono spesso prostitute o comunque fanno mestieri degradanti». Poi la sua voce torna ad animarsi osservando che tanti migranti, come quello descritto nel suo racconto, sono molto coraggiosi e pieni di energia, di voglia di fare. Sono pronti a un viaggio durissimo e costellato di pericoli, a fare i mestieri peggiori, a sgobbare come nessun altro. «Gente che ha questa forza, questa determinazione è proprio quella che dovresti augurarti di avere. Eppure gli europei celebrano l’epopea dei loro pionieri, per esempio quelli che andarono in America o in Sudafrica, lavorando duro e affrontando rischi di ogni sorta e non si accorgono che le qualità che attribuiscono loro, esaltandole, sono le stesse dei migranti africani».
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