Cultura

I suoni: guida per l’inconscio

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LA POESIA SECONDO ME

I suoni: guida per l’inconscio

Facciamo spesso poesia senza accorgercene. Io vado in giro con i miei taccuini, e quando sento uno che dice, scrivo. Una volta, in un’osteria ho sentito uno che parlava davanti a un bicchiere: «Tì, te seet o fioeu...,Te capiset nient...Mì hoo vist la mòrt...Perché, t ’el see, l’era giammò on poeu che la me correva drèe, ’sta mòrt...La me correva drèe, e mì...Te see se hoo faa? Perché al mond bisògna stà semper svegli, te salten adòss… Me son nascost! Lee la me cercava, e mì seri de drèe».

L’era inutil cercamm, mì seri de drèe de lee! Brutta puttana, che la lì, che la cerca semper on pòst...»

Questo aveva detto, grosso modo, ma lui era stato più preciso. Ho fatto una poesia sulle sue parole, con le sue parole, proprio perché le sue parole erano precise. «La me cercava, e mi seri de drèe...». Questo è un verso, un verso fatto. Lui non se ne è accorto, io non me ne sono accorto fino a quando, scartabellando i diari, rileggo e mi accorgo che c’è la poesia. La poesia è anche ascolto, ascolto di noi, prima di tutto, e anche ascolto degli altri. Degli altri perché gli uomini, magari, non se ne rendono conto; non scriveranno mai una poesia, ma sono dei poeti, e dicono poesia.

Quante cose io ho scritto dopo aver ascoltato gli altri! Anche nell’Angel ci sono due o tre capitoli che sono la storia che mi ha raccontato uno, l’ho scritta, subito, in romanesco, come l’ha detta lui, non potevo scriverla in un’altra lingua, perché erano le sue espressioni, perché l’espressione è sempre il segno di una verità molto più profonda di quello che è invece il tradurre e il mettere in una forma convenzionale, perché proprio la vicinanza di una parola con l’altra, la costruzione dei suoni, la loro lontananza, dà dei significati.

Dunque, riassumendo, quando si scrive poesia, per prima cosa bisogna quanto più possibile essere in relazione con se stessi. Per farlo si deve essere forti, perché è necessario sopportare se stessi. Non sempre è piacevole vedere anche le cose di noi che non ci piacciono. Io ho provato ad essere vigliacco, ladro, coraggioso, vile, terribilmente vile, sempre senza evitare di guardarmi, sempre tenendo sgombro l’occhio della mia coscienza dalle convenzioni. Poi, magari, si entra in compromesso con se stessi, che è il compromesso della vita, per tante ragioni, compresa la paura. Ma bisogna sapere che è paura, e che si è fatto un compromesso.

Avere uno sguardo attento e sgombro, e non sfuggire mai al rapporto con se stessi, è il primo passo.

Il secondo è mettersi in relazione con la parola.

La parola ha senso solo in quanto è in rapporto con la profondità del proprio essere, che non è solo il giudizio che dà la mente, ma che è fatta dalle emozioni, dalle sensazioni, dalla memoria. Quando si scrivere una poesia bisogna abbandonarsi alla memoria interiore, quella del proprio vissuto.

A volte si scrive guardando fuori dalla finestra, a volte - invece - ricordando. Ma il ricordo non deve essere «la spiegazione del ricordo». È come nei sogni: Freud raccomanda innanzitutto di non aspettare a trascrivere quel che si è sognato, altrimenti si finisce per aggiustare un poco il sogno. Bisogna scriverlo subito così come è: se non ci si ricorda, si salta. Se si altera anche solo qualcosa il sogno non si può più interpretare bene.

Lo stesso è con la poesia: non dobbiamo dare la spiegazione di ciò che abbiamo sentito o ricordato, dare la nostra immagine intellettuale di ciò che ci è passato dentro. Dobbiamo cercare di far parlare l’interiorità, di far dire il ricordo.

E qui entra in ballo un’altra cosa importantissima: i suoni, di cui tratteremo più approfonditamente in un’altra puntata. I suoni, infatti, sono fondamentali come guida all’inconscio. Ci conducono, sono loro che ci portano, non è il senso, o lo è in un modo stranissimo. Tessa dice «Rime ci ragionano». E potrebbe dire «Suoni ci ragionano». Perché i suoni si accompagnano al senso: il senso dà suoni, e i suoni danno senso. Seguono un senso, e anche lo portano.


Nella prima puntata abbiamo detto che la poesia è un fare. È un fare perché mette in relazione noi stessi con la parola, e quando usiamo la parola agiamo su noi stessi: “facciamo”. Nello stesso tempo la poesia stabilisce l’espressione - cioè le cose che sono dentro l’espressione, nell’ordine dell’eternità degli accadimenti dell’essere, non secondo l’ideologia, o la filosofia, o le dottrine varie.

Perché capiamo Omero? Perché lui ha messo in un ordine le cose, un ordine in cui ci riconosciamo ancora oggi! Siamo ancora presenti a quell’ordine: oltre a ciò che Omero ha detto anche il “come” l’ha detto fa sì che sia ancora un accadere di oggi. Sono i dettagli formali che ci danno l’impressione che sia di allora (gli dei, l’ambientazione...) ma non è così. Pensiamo alle sirene, le sirene sono qui tutti i giorni: le convenzioni, ad esempio, sono le sirene. Tutte le convenzioni, quelle filosofiche, ideologiche, il conformismo. E allora bisogna tapparsi le orecchie quando si incontrano. Così fa chi viaggia - cioè, chi “fa”.

La parola del poeta rende presente il passato. In realtà, il passato non esiste, come dice anche S. Agostino: non esistono il passato e il futuro. Esiste il presente.

L’eternità è compresente.

Lo sforzo che il poeta fa di riportare i propri ricordi all’interno di una struttura espressiva è un lavoro di riportare al presente e nel presente ciò che sembra finito, morto, passato.

Ecco perché è importante la ripetizione dell’atto poetico contro il «tutto è già stato detto». Certo che tutto è già stato detto, ma tutto è stato detto in forme adatte al tempo. E l’eternità va ripetuta, perché cambiano le generazioni, passano. L’uomo perde la memoria e allora è necessario eternare di nuovo le cose, nel loro valore

di essere, non nel loro valore di apparenza.

Se io sento in un certo modo il mio modo di essere con una cosa o con una persona, allora quel modo mio, particolare, avrà i colori e le parole del tempo, e avrà certo

anche delle gabbie culturali e convenzionali che son quelle del mio tempo, ma avrà l’essenza del rapporto che io vivo, e quell’essenza viene fissata per le generazioni

future.

Quando fissiamo un’essenza si ripete un rito che è già stato compiuto: il “fare il sacro”.

Fare il sacro è proprio e precisamente questo: rendere eterno ciò che è transeunte, rendere chiaro ciò che è oscuro, rendere evidente ciò che è trascurato, rendere visibile ciò che è invisibile.

Ecco perché, come dice nella sua “Storia della letteratura latina “ Concetto Marchesi, il poeta alle origini era il sacerdote, cioè era colui che fa il sacro.

Ed ecco perché Petrarca nel 1300 apre una polemica, che a momenti lo porta sul rogo, in cui sostiene che la poesia è sempre Scrittura, sempre parola di Dio. Lo salva l’intervento di alcuni Francescani, i quali snaturano un po’ quello che lui ha detto, ma così facendo lo presentano in una maniera che diventa accettabile al potere della Chiesa. Sennò l’avrebbero bruciato sul rogo, perché il dire che la poesia è sempre Sacra Scrittura era tremendo: la Sacra Scrittura era “quella là”, quella testimoniata e scritta per sempre nei libri scelti dalla Chiesa cattolica. Dire che la poesia è sempre Scrittura significa dare un senso all’uomo anche al di fuori della dottrina, e questo non era ammissibile.

Quel che sostiene Petrarca è interessante, perché dice che quando l’uomo esprime la parola, e la esprime nella verità più profonda di sé, lì c’è il Dio che parla, (anche Platone lo dice, nello Ione) in quanto il nostro essere più profondo è in relazione con la divinità. E allora, se il poeta parla in relazione con la divinità, la sua parola è divina, e quindi è Scrittura. Ungaretti, poi, scrive nel ’32 “la poesia è una preghiera anche quando è una bestemmia”. Questo è ancora più difficile da accettare, dal punto di vista dei dottrinari.

Pubblichiamo la seconda puntata di una serie di riflessioni sulla poesia e sullo scrivere poesia di Franco Loi, uno dei nostri maggiori poeti viventi, storico collaboratore della «Domenica» del Sole 24 Ore. La prima puntata è uscita il 9 agosto.

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