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Dossier Ridateci la libertà di discutere e sperimentare

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    Dossier | N. 9 articoliFestival della Partecipazione

    Ridateci la libertà di discutere e sperimentare

    Queste immagini sono tratte da «Le mani della città» di Claudia Pajewski, una ricerca fotografica sulla comunità multiculturale degli operai dell’Aquila, oggi definita il più grande cantiere edile d’Europa. La mostra sarà visitabile durante il Festival della Partecipazione presso gli spazi dell’Asilo Occupato.
    Queste immagini sono tratte da «Le mani della città» di Claudia Pajewski, una ricerca fotografica sulla comunità multiculturale degli operai dell’Aquila, oggi definita il più grande cantiere edile d’Europa. La mostra sarà visitabile durante il Festival della Partecipazione presso gli spazi dell’Asilo Occupato.

    Prendere decisioni pubbliche “giuste” – considerate giuste da un numero di persone e con un convincimento sufficiente a permetterne l’attuazione – è sempre stato terribilmente difficile per chi in democrazia riceve la delega per farlo. Lo sta diventando sempre più. Il ricorso al referendum popolare in Gran Bretagna sull’appartenenza all’Unione Europea e in Italia sulla riforma istituzionale rappresenta l’ultima eclatante manifestazione della rinunzia a raggiungere nella sede delegata un “accordo” sufficiente (in Italia, costituzionalmente sufficiente). Il rigetto (sempre più spesso, il disprezzo) nei confronti dei partiti ne è il segno più diffuso.

    La ragione di questa situazione, che sfida la democrazia, sta in due fenomeni concomitanti. Primo, le pubbliche decisioni si sono fatte sempre più complesse: a causa della crescente diversificazione delle preferenze di cui devono tenere conto e della consapevolezza di tale diversità (e delle interdipendenze), sono cresciute in modo esponenziale le informazioni di cui quelle decisioni hanno bisogno, una vera e propria fame di conoscenza. Secondo, una parte sempre più grande dei cittadini aspira a influenzare direttamente (se non a prendere) decisioni pubbliche sulla base delle proprie preferenze e conoscenze, organizzandosi per farlo e utilizzando i mezzi della nuova società dell’informazione: un’offerta spesso prorompente di conoscenza.

    Fame crescente di conoscenza, da una parte, offerta crescente di conoscenza, dall’altra. Se la si vede così, la strada per riprendere il viaggio interrotto verso una maggiore giustizia sta nel fare incontrare queste due forze. Nel costruire nuovi luoghi e strumenti dove esse possano parlarsi. Anzi, non nel “costruire”, perché dobbiamo ammettere di non conoscere la soluzione; piuttosto, nello “sperimentare” luoghi e strumenti che consentano di riempire di concretezza il messaggio di una “democrazia deliberativa”, di un “governo attraverso dibattito”, di una “giustizia partecipata”.

    È un viaggio tutt’altro che facile. A dominare è da anni la tentazione opposta: esorcizzare la complessità con la “semplificazione”, assumendo che le nostre diverse visioni del mondo siano riducibili a principi morali unici e che esistano istituzioni perfette capaci di assicurare in ogni tempo e luogo decisioni “giuste”. E non basta mostrare la caducità di questa strada, che porta di volta in volta ad acclamare un “salvatore” perché dice cose semplici, e poi a buttarlo giù dal piedistallo perché le sue decisioni semplici non producono la svolta promessa. Se vogliamo convincere cittadini e classi dirigenti a investire tempo ed entusiasmo nella democrazia deliberativa, ci vuole di più. Dobbiamo mostrare nei fatti che esiste un metodo per raggiungere “accordi attraverso la partecipazione” e per imparare facendo. Amartya Sen in L’Idea di Giustizia propone un metodo sufficientemente strutturato da essere replicabile e sufficientemente destrutturato da essere adattabile. Al Festival della Partecipazione di L’Aquila - un tentativo collettivo di “sentire” dove teoria e prassi ci stanno portando in quel viaggio – ho scelto di portare la lettura di questo metodo, riprendendo un confronto sulle pagine della rivista «Parole Chiave» (n.53), e l’esperienza concreta condotta sia nell’Amministrazione pubblica con la Strategia per le aree interne (Cfr. http://www.fondazionegorrieri.it/index.php/pubblicazioni/opuscoli-e-lettura-gorrieri/item/lettura-2015), sia in politica con il progetto Luoghi Ideali (http://www.luoghideali.it/luoghideali/wp-content/uploads/2015/06/Relazione-finale-Luoghi-Ideali1.pdf).

    Con Sen possiamo muovere dall’idea che alla base del nostro «senso di giustizia» stanno i «sentimenti», l’istinto, e che il contesto e la cultura in cui nasciamo e cresciamo e i nostri tratti individuali ci portano a punti di vista che possono restare inesorabilmente diversi, anche quando siano sottoposti al vaglio della ragione. È dunque vano cercare, magari (come nel pensiero di John Rawls) attraverso il velo dell’ignoranza – ossia prescindendo da chi siamo, dalle nostre preferenze e dai nostri interessi –, un presunto principio morale universale che poi ci guidi nelle decisioni concrete. Prendiamo piuttosto atto della pluralità delle nostre visioni del mondo e facciamole incontrare nel vivo della ricerca di soluzioni a problemi concreti attraverso un confronto pubblico, acceso, informato e aperto. Questa è l’essenza del metodo suggerito da Sen. Un confronto dove ogni visione, anche antagonista, sia presente; dove tutti i partecipanti siano spinti a produrre informazione; dove alla conoscenza della comunità di appartenenza si affianchino sempre la conoscenza e lo stimolo esterni, necessari per uscire dalla trappola comunitaristica e accrescere la libertà di ogni individuo di «decidere come concepire sé stesso».

    Non si tratta solo di confrontare «argomentazioni ragionevoli», per convincere gli altri del proprio giudizio. Ma anche di riconoscere reciprocamente punti di vista, sentimenti. In questo doppio confronto, di ragioni e istinti, i partecipanti potranno «cambiare idea», o potranno cambiare la gerarchia di preferenze assegnata alle diverse soluzioni, e questo potrà consentire un «accordo» inizialmente non possibile. Oppure, nella permanenza di un disaccordo, potrà emergere il comune giudizio negativo su alcune soluzioni. O, ancora, potrà emergere una convergenza su soluzioni parziali considerate da un numero «sufficiente» di parti come un passo, seppure inadeguato, verso la propria visione, (una soluzione «intersezione»). Insomma, proprio Sen, il teorico della scelta sociale secondo cui «una procedura di scelta sociale qualificabile come razionale e democratica … non è in grado di soddisfare simultaneamente neppure un numero ridotto di condizioni assai blande», ci mostra che «rendendo le procedure di decisione sociale più ricettive all’informazione … nella maggioranza dei casi [le contraddizioni e le impasse] possono essere sostanzialmente risolte».

    La chiave di volta di una «giustizia partecipata» è dunque il confronto pubblico, acceso, aperto, informato. Ma che fare se manca? Se lo Stato è refrattario – anche per la sua arcaicità, come in Italia – a permettere o costruire spazi adeguati di confronto? Se i mezzi di comunicazione non sono indipendenti? Se la valutazione pubblica è sacrificata e carente, anche nell’azione dei cittadini organizzati? In queste circostanze sembra non esservi dubbio che il paradigma di Sen richieda un’azione per reintrodurre questi requisiti fondamentali. Ma se la democrazia è deficitaria da dove verrà la spinta? In questi casi, a muoversi per prime sono «avanguardie», ma per loro natura e necessità di sopravvivenza esse non realizzeranno al proprio interno condizioni di «pubblico confronto, aperto e informato», e dunque cosa le preverrà dalla degenerazione, dalla tentazione di rendere permanente questa condizione a-democratica? Anche con questi interrogativi in testa dedichiamoci a valutare, discutere e promuovere le mille esperienze concrete che nel Paese si vanno realizzando. Con l’urgenza e la passione dettate dal vuoto politico in cui siamo.

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