C'è una band di ragazzi colti che esiste da sei anni, ha inciso album ambiziosi che a qualcuno potranno apparire pretenziosi, si è guadagnata una notevole reputazione nei circuiti underground con un'originale miscela di melodia e psichedelia, tanto che la critica la porta in palmo di mano. Roba interessante, da tenere d'occhio. Non stiamo parlando dei Tame Impala di oggi, ma dei Pink Floyd del 1971. Oggi c'è un signore di 70 anni che cambia t-shirt con meno frequenza di quanto cambi la chitarra, pochi capelli bianchi come quell'accenno di barba che non si è mai tolto.
La location è la stessa: l'anfiteatro degli scavi di Pompei, passato alla storia più per le agitazioni dei tifosi dell'antichità che per i combattimenti dei gladiatori. Il signore di 70 di oggi è uno della band di ragazzi di ieri: David Gilmour, chitarrista e voce principale dei Pink Floyd che a Pompei ieri è tornato a esibirsi, a 45 anni di distanza dal memorabile «Live at Pompeii» filmato da Adrian Maben (quest'ultimo presenta tra il pubblico). E stasera si replica. Questa, però, è un'altra storia: questo è il «Rattle That Lock World Tour», il giro concertistico del mondo che accompagna l'uscita del suo quarto album solista. Davanti ha una folla di 2.500 spettatori: quasi tutti lo osannano, alcuni lo hanno già visto a Roma e lo rivedranno a Verona, qualche altro si aspetta di rivedere tutto il «Live at Pompeii», ma David è qui per chiudere il conto, per documentare quello che è accaduto dopo Pompei, l'esplosione globale di quella band di ragazzi colti con il fenomeno «The Dark Side of the Moon» e la parabola di rock ecumenico che ne è seguita. E allora ecco una scaletta che non si discosta molto da quella proposta nel tour mondiale.
Ribalta per «Rattle That Lock»
La sequenza di apertura è la stessa del nuovo disco: «5 Am», la title track, poi la tagliente «Faces of Stone», prima di indietreggiare fino al repertorio floydiano di ultima maniera con «What do you want from me». La particolarissima location, comunque, è valore aggiunto: l'arena ellittica non è grandissima, riesci ad abbracciarla tutta con lo sguardo e raramente, di fronte a produzioni di questa complessità, hai la garanzia di stare così vicino al palco. La ultra-celebrata «The Blue», sempre dal repertorio solista ma risalente ormai a dieci anni fa, ha il compito di guidare il grosso della platea verso lidi meglio conosciuti: slide in pugno per l'omaggio a Rick Wright con «The Great Gig in the Sky», per esempio, con il tastierista Greg Philinganes in gran spolvero. Ci scappa pure qualche parolina col pubblico: «Bello stare qui di nuovo a Pompei, dopo tutti questi anni». Ennesima concessione al nuovo disco («A boat lies waiting»), poi si vola indietro agli anni Settanta, il decennio d'oro dei quattro di Cambridge, con la chitarra di Zio Dave che si incrocia a quella di Chester Kamen nel memorabile duello acustico di «Wish you were here» e il basso di Guy Pratt che detta il tempo di «Money» prima che nell'assolo finale si liberi il sax di Theo Travis. La prima parte dello show decelera allora su «In any tongue» e «High Hopes», dove Gilmour smorza la tensione con un uso particolarmente delicato della chitarra classica.
Il ritorno di «One of These Days»
Il legame con il «Live at Pompeii» che tutti si aspettavano arriva all'inizio del secondo atto: è «One of These Days», lo strumentale che spaccava in due quel memorabile concerto senza pubblico, un superclassico che a distanza di 45 anni non ha certo perso il suo bel mordente. L'anfiteatro s'infiamma su «Shine on you crazy diamond», omaggio a Syd Barret che, ironia della sorte, cade a dieci anni esatti dalla scomparsa del lisergico fondatore dei Floyd. Altra perla del periodo pre-best seller è «Fat Old Sun», brano vetrina di Gilmour in quel divertentissimo esperimento che si chiamava «Atom Heart Mother». La scaletta decelera nuovamente tra produzioni tardo-floydiane («Coming back to life», più avanti «Sorrow») e recenti produzioni soliste (tra «On an island» e «Today» spicca l'atmosfera jazzy di «The Girl in the Yellow Dress»), per fare esplodere il pubblico, però, ci vuole altro. «Run like hell», per esempio, con il flanger della chitarra che porta a spasso i raggi laser che Mr. Screen proietta sugli spalti, quindi esplosioni di fiamme in mezzo alle fiaccole poste in cima alle gradinate. C'è tempo per due bis: l'immortale «Time», con la coda del reprise di «Breathe» e la scomodissima ballad «Comfortably Numb», dove il cantato di Roger Waters è affidata al pianista sessionman di lungo corso Chuck Leavell. Return to Pompei: missione compiuta, tutti a casa contenti. Quasi tutti: qualcuno continua a lamentarsi perché avrebbe voluto più estratti dalla scaletta del «Live at Pompeii» che fu. Ma si sa che questo è un anfiteatro famoso più per le agitazioni dei tifosi dell'antichità che per i combattimenti dei gladiatori.
© Riproduzione riservata