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Orchestratore delle lettere

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Orchestratore delle lettere

Roland Barthes   (1915-1980)
Roland Barthes (1915-1980)

Jean Starobinski ama la tradizione, le lettere e la musica della nostra civiltà italiana: in questo monumentale teatro delle sue letture, dalle prime prove negli anni Quaranta del Novecento ad oggi – testi rari, spesso introvabili, raccolti con paziente cura da Martin Rueff e dalla sua équipe – spiccano, soprattutto, l’Ariosto e Calvino, e non meno – per le arti – Guardi, Tiepolo, Piazzetta; e per la musica, Monteverdi, Da Ponte – Mozart, Zingarelli – Foppa (Giulietta e Romeo, 1796). Una prodigiosa convocazione della dignità umana dei classici e della Libertà, compendiata in quella professione di fede e di solitudine che Cosimo di Rondò eleva nel Barone rampante e che Starobinski riprende e isola nella sua Prefazione alle Opere di Calvino: «Sempre però sapendo che per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri, d’imporre a sé e agli altri quella sua incomodità e solitudine in tutte le ore e in tutti i momenti della sua vita, così com’è vocazione del poeta, dell’esploratore, del rivoluzionario».

Una linea stoica che è stata del più alto Novecento: «una solitudine liberata dall’angoscia della solitudine» (Hammarskjöld), «voce che s’allontana da chi parla, che s’ostina a liberarsi, straniera. E che non finisce di strapparsi al dolore che la nutre» (Starobinski, sulla poesia di Paul Celan). E questo isolarsi s’incide per anelito d’assoluto, come in Baudelaire, un Baudelaire che è un libro nel libro (quasi 200 pagine dell’insieme), una matrice costante, mai raccolta in volume, del pensare di Starobinski: «Una vera fame d’assoluto, non percepita, inconscia, si dissimula in un’altra fame che s’inganna d’oggetto, e della quale tutti gli appagamenti, effimeri e deludenti, scavano il vuoto» (Le rime del vuoto, 1975).

Il critico eletto di Rousseau, di Diderot, dei Lumi e della Malinconia, si scopre qui un fedele interprete di Baudelaire, proteso a un ascolto intenso di ogni vibrazione del testo “claustrale” delle Fleurs du Mal, sino alla precisione incalzante, filologica, stilistica, di pensiero e di fonti applicata a Moesta et errabunda, da un distico d’André Chénier risalendo sino alla Consolazione a Polibio di Seneca. E con Seneca, direi Luciano, o piuttosto lo pseudo-Luciano, alias Maffeo Vegio, del Palinurus, ove il sintagma compare nei fondali stigi: «Nunc agit sese circum haec stagna moestus atque errabundus», di lì discendendo poi sino all’Ungaretti, baudelairiano e infero, del Palinuro e degli Ultimi Cori. È la costrizione alla “contemplazione orbata”, quale Starobinski rivela in un passo del Salon de 1859: «Quale forza prodigiosa l’Egitto, la Grecia, Michelangelo […] han rinserrato in questi simulacri immobili! Quale sguardo in questi occhi senza pupille »; e Ungaretti poi: «In piazza Santa Croce lastricata / d’orbite spolpe» (Roma / D’agosto, 1925).

Tutta la poesia europea è convocata, con un accento di spiccata sintonia con Pierre Jean Jouve, Philippe Jaccottet, Yves Bonnefoy, al quale fu legato da profonda amicizia (si veda il luminoso saggio, a lui dedicato, Beauté et vérité). In questo memoriale appassionato delle “arti sorelle” sfilano altresì, in una ricca sezione, gli artisti a Starobinski più cari: da Goya a Füssli, da Van Gogh a Balthus, da Michaux a Ostovani, in quella ricerca costante dell’ «espace du dedans» che è anche il tono della quête del critico ginevrino; c’è nel suo stile un riserbo e un pudore pari alla costante attenzione a «un registro inatteso della percezione». Il suo mondo è un volto di umanità che interroga: «Credo volentieri a Cassirer, quando definisce l’attività prima della coscienza come una ”appercezione mitica” nella quale il mondo immediatamente percepito è una fisionomia, un volto carico d’espressione» (Il mondo fisiognomico). Questo volto, carico di rughe e di luce, egli ci restituisce nella sua prosa, ove il sorriso della saggezza e la reverenza all’inconoscibile s’associano in un affabile ritegno, che non è dominio e non è resa: «l’ironia non è ciò che desacralizza, è un modo paradossale di accedere al sacro» (Henri Michaux).

Incorniciano il volume una biografia (L’oeuvre d’une vie) a cura di Martin Rueff, che è il primo ed esaustivo profilo [150 pagine] della lunga laboriosa vita del Maestro e alcuni saggi, di Michel Jeanneret, Julien Zanetta, Laurent Jenny, Georges Starobinski e ancora Martin Rueff in conclusione, che incorniciano con fedele attenzione l’attraversamento critico di un secolo.

A voler suggellare in un’immagine questo tesoro di sapienza forse si potrebbe scegliere un testo, quasi autobiografico, del 1968: D’un auditeur, dedicato ai cinquant’anni dell’ Orchestre de la Suisse Romande, 1918-1968: «Sì, l’Orchestra è stata per me un compagno d’infanzia. […] Si sa, ogni formazione passa attraverso le voci dalle quali un bimbo è circondato. Ora l’Orchestra è stata per me una delle voci più persuasive che mi abbia circondato. Debbo annoverarla tra i miei maestri […]. All’uscita, nella rue de Carouge già buia in quei crepuscoli invernali, raccoglievo in me quel calore dei timbri, mi sentivo vibrare di ritmi, mi elevavo in una vita più grande».

Grazie, caro Jean Starobinski, di continuare a orchestrare per noi il mondo.

Jean Starobinski, La Beauté du monde. La littérature et les arts, a cura di Martin Rueff, Gallimard, Parigi, pagg. 1344, € 30,00

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