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Bitte, un po’ più di tatto nel «guidare»…

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il sole junior

Bitte, un po’ più di tatto nel «guidare» l’Europa!

Torniamo al filone “Geografia economica”. Finora abbiamo parlato di altri continenti, ma questa volta veniamo al nostro e parliamo del Paese cuore e motore dell’economia europea, la Germania.

«I tedeschi temono Dio, ma nient’altro al mondo» (Otto von Bismarck) – «Non tutti i tedeschi credono in Dio, ma tutti credono nella Bundesbank» (Jacques Delors). Due citazioni, queste, che racchiudono alcuni messaggi essenziali sull’anima tedesca. La nazione tedesca del dopoguerra racchiude una storia di successo, che ha fatto di un Paese umiliato e sconfitto – per due volte nella storia sanguinosa della prima metà del Novecento – una poderosa “macchina da guerra” nell’arena – questa volta incruenta – degli scambi internazionali. Dato che i tedeschi non temono «nient’altro al mondo», hanno volto la loro prodezza produttiva all’affinamento di un'industria che non teme rivali quanto a qualità e innovazione. E, dato che «credono nella Bundesbank» – la Banca centrale della Germania, gelosa custode della stabilità dei prezzi e dei conti in ordine – hanno saputo espandere la loro economia senza cadere nell’inganno dell’inflazione o dell’eccesso di debito.

La rivoluzione industriale, originata in Inghilterra nel tardo Settecento, arrivò poi in Francia, in Belgio..., ma molto più tardi in Germania. La nazione tedesca, a differenza di Francia e Gran Bretagna, divenne uno Stato unitario solo nel tardo Ottocento. Ecco un altro esempio di come l’economia si intrecci alle istituzioni e alla storia: l’unione doganale, che divenne tale solo con l’emergere della Germania come Stato unitario, fu essenziale per allargare i mercati e beneficiare delle economie di scala.

Il “miracolo economico” è un’espressione che conosciamo bene, applicata all’Italia del dopoguerra. Ma il Wirtschaftswunder tedesco fu altrettanto, se non più, impressionante. Dietro a questi due “miracoli” vi erano due cause comuni: da una parte la voglia di riscatto di due Paesi sconfitti che volevano dimenticare gli orrori della guerra; e dall’altra il deciso abbraccio della libertà degli scambi, il contrario di un’autarchia che era associata ai regimi nazista e fascista: Alcide De Gasperi e Ludwig Erhard – due grandi statisti – si schierarono, con illuminata decisione, in favore di un’economia aperta agli scambi internazionali. Ma dietro al miracolo tedesco vi era un terzo fattore, anch’esso promosso da Erhard: il concetto di “economia sociale di mercato”. Un assetto che metteva insieme mercato e socialità, libertà d’intrapresa e protezione sociale. Concetto e assetto che affondavano le radici nella storia tedesca. Agli albori dello Stato unitario fu Otto von Bismarck che creò il primo sistema di sicurezza sociale al mondo, con l’introduzione di un sistema pensionistico.

Più tardi, la Germania fu in prima linea nella creazione della Comunità europea e dei successivi approfondimenti, fino alla moneta unica. L’Unione europea e la moneta unica rappresentano una grande avventura, che mirava e mira a intessere fitte reti di vantaggi reciproci, così da togliere di mezzo quelle tensioni nazionalistiche che avevano per secoli insanguinato l’Europa. Ci saranno ancora guerre in Europa? Un premio Nobel dell’economia, Martin Feldstein, era arrivato a dire che la creazione dell’euro avrebbe potuto portare a tensioni tali in Europa da sfociare in veri e propri conflitti. Ma invece, nel 2012, proprio quando l’euro sembrava in crisi – emergevano tensioni fra “Paesi deboli” e “Paesi forti” e alcuni avrebbero potuto pensare che Feldstein non era molto lontano dal vero – all’Unione europea fu assegnato il premio Nobel per la pace. Il comitato norvegese che assegnò il premio guardava lontano e a ragione. Il bicchiere è mezzo pieno, e l’Europa (che progredirà solo grazie alle crisi, come diceva Jean Monnet) sta costruendo nuove condivisioni di sovranità.

Oggi la Germania è molto criticata, e a ragione, circa l’insistenza passata sulle politiche di austerità, anche se ora quelle insistenze vanno stemperandosi. Ma ci sono ragioni storiche per quella insistenza. Nel capolavoro postumo di Irène Némirovsky, “Suite Française”, il tenente Bruno von Falk dice: «Per noi tedeschi, quel che è allo stesso tempo il nostro difetto nazionale e la nostra più grande qualità, è la mancanza di tatto; siamo incapaci di metterci al posto degli altri, li feriamo gratuitamente, ci facciamo odiare, ma questo ci permette di agire con inflessibilità e senza cedimenti». L’inflessibilità tedesca nella difficile temperie che l’Europa oggi attraversa è volta tuttavia a chiedere contropartite di “più Europa”, non di dominio egemonico. Nella tela dei secoli questo conta. E un giorno l’Europa si scoprirà ancora più unita.

L'altra grande “insistenza” tedesca è sulla stabilità dei prezzi. I tedeschi hanno, profondamente radicato nella loro psiche, un peculiare orrore dell’inflazione. Un “orrore” che risale all’iperinflazione della Repubblica di Weimar (1923), quando ci voleva un chilo di banconote per comperare un chilo di pane.

Narrano le leggende bancocentrali che Karl-Otto Pöhl (dal 1980 al 1991 presidente della Bundesbank) era capace di distinguere fra duecento diverse grappe. Mentre il suo successore, Helmut Schlesinger, appassionato alpinista, si allenava anche a Francoforte: saliva ogni giorno a piedi i dodici piani per arrivare al suo elevato officio. Ma, a parte questi diversi approcci allo stordimento delle vette, i due uomini (e i loro successori, fino all’attuale Jens Weidmann), avevano e hanno una devozione comune: l’avversione profonda allo svilimento inflazionistico. Schlesinger racconta come avesse vent’anni dopo la guerra, e la notizia del cambio dei vecchi con i nuovi marchi - un cambio che spazzava via i suoi pochi risparmi - gli arrivò dalla radio mentre mangiava in una stanza disadorna con la fidanzata: «Bevemmo un bicchiere di vino - disse (Pöhl avrebbe bevuto una grappa) - per farci forza e ricominciare tutto da capo».

La maggioranza dei tedeschi, in ogni caso, continua a sostenere l’euro. Sulla moneta unica la Germania ha investito un capitale politico più grande di quanto si creda, e dell’euro ha beneficiato molto, così come ha beneficiato dei bassi (o negativi) tassi di interesse che paga a causa dell’ “effetto rifugio”: gli investitori lasciano i Paesi indebitati e si rifugiano nella Germania, che può così emettere i suoi titoli con tassi a zero o sotto zero.

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