Cultura

A colloquio con Orhan Pamuk: «Serve ottimismo per vivere in questa…

  • Abbonati
  • Accedi
A colloquio con il nobel

A colloquio con Orhan Pamuk: «Serve ottimismo per vivere in questa Turchia»

Orhan Pamuk (Afp)
Orhan Pamuk (Afp)

Una trentina di anni fa, un Orhan Pamuk i cui romanzi erano prossimi a varcare i confini della sua Turchia natale, essere divulgati nel mondo intero e acquisire quella reputazione globale che gli avrebbe fatto vincere il premio Nobel per la Letteratura nel 2006, all'improvviso si accorse che uno scavatore di pozzi e il suo apprendista avevano piantato la loro tenda accanto a dove lui stava trascorrendo l'estate. Era totalmente immerso nella stesura del suo quarto romanzo, «Il libro nero» (1990), ma al tempo stesso fu incuriosito da quell'arte ormai scomparsa di scavare e scoprire l'acqua.

Iniziò pertanto a dedicare quella che egli definisce «un'attenzione da scrittore» al rapporto «maestro e apprendista» che legava i due uomini. Pamuk ebbe modo di conoscerli, offrendo loro corrente elettrica e acqua, e di indagare a fondo alcune storie del “maestro”.

A quasi trent'anni di distanza, lo scavatore di pozzi e il suo apprendista costituiscono il perno narrativo del decimo romanzo dello scrittore turco insignito del Nobel, «La donna dai capelli rossi», un arricchimento importante e incisivo del corpus delle opere di Pamuk. Per celebrare l'evento, Pamuk riceve il “FT” a Buyukada, un'isola nello scintillante mar di Marmara, a un'ora di distanza da Istanbul. Lì, in estate, lo scrittore sessantacinquenne prende in affitto una casa, sorprendentemente spartana malgrado la profusione di bouganville, la luce cristallina e lo schiamazzo dei gabbiani. Nell'angolo ombreggiato di una terrazza prospiciente il mare ha sistemato una scrivania, traboccante di suoi scritti e di sue letture.

Pamuk – non solo possente protagonista della letteratura, ma spesso anche parafulmine nelle controversie del suo Paese – intende chiarire alcune parti del romanzo prima di esaminare la situazione del suo Paese , una Turchia traumatizzata dal tentato colpo di stato dell'anno scorso contro il presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo partito neo-islamista al governo, e dalle epurazioni di massa che ne sono seguite. Nel corso delle due ore del nostro incontro c'è tutto il tempo di parlare a ruota libera di vari argomenti.

«La donna dai capelli rossi» è, da un lato, la narrazione di un rito di passaggio nel quale si profila minacciosa la figura di un padre o, per meglio dire, l'assenza di un padre. Un po' come il monumentale romanzo di Pamuk «Il mio nome è Rosso» (1998), l’ultimo libro ha una trama intricata, imperniata su un mistero che si colloca tuttavia nel solco della struttura deterministica della tragedia classica che, da «Edipo re» ad «Amleto», racchiude le domande tipiche di colui che investiga: Che cosa è successo? Chi ne è responsabile?

L'Edipo di Sofocle, e così pure la storia di Rostam e Sohrab del poeta persiano Ferdowsi nel suo poema epico «Shahnameh», o «Libro dei Re» — «due miti essenziali della civiltà europea e di quella islamica», dice Pamuk – forniscono uno sfondo vibrante portato in primo piano in modo sconvolgente. Edipo, come è risaputo, uccide per caso suo padre e sposa sua madre. Rostam ammazza un guerriero che si scopre essere suo figlio. La donna dai capelli rossi del titolo è un'attrice itinerante di cui è infatuato il giovane apprendista Cem, che tuttavia continua a subire il forte fascino di mastro Mahmout, il costruttore di pozzi che prende il posto del padre assente. Cem va a letto con la donna dai capelli rossi, più anziana rispetto a lui di sedici anni – la stessa differenza di età che corre tra Edipo e sua madre – e in seguito veniamo a sapere che lei è stata l'amante del padre scomparso di Cem.

I richiami a Sofocle non si fermano qui. Pamuk rimanda ad altre due influenze, in particolare a Turgenev: non soltanto a «Padri e figli», ma anche a «Primo amore», un racconto nel quale il giovane protagonista si innamora di una donna più anziana di lui che si rivelerà essere l'amante di suo padre. «Turgenev ha influenzato tutte le mie opere, i padri e i figli in definitiva» dice in modo enigmatico Pamuk. (Parlò di suo padre addirittura nel discorso alla cerimonia di consegna del premio Nobel.) Ammette poi apertamente che il suo romanzo si è “nutrito” dell'assenza del padre così come lui l'ha percepita. «Mio padre spariva, come il padre ne “La donna dai capelli rossi”, e nella maggioranza dei casi al riguardo ero felice e infelice. Felice perché mia madre era tutta per me e per mio fratello». L'infelicità, dice, era dovuta al fatto che «in quelle fasi della mia vita avevo bisogno di un padre, della presenza fisica di un padre». «Hai bisogno della sua autorità, ti senti perduto, avverti la necessità di qualcuno che ti parli di ciò che dovresti o non dovresti fare: arte, pittura, scappare da scuola, trasgressioni, tabù» dice Pamuk. «Mio padre era una persona dolcissima - aggiunge - ma il mio padre freudiano non è stato lui, bensì mio fratello maggiore, di vent'anni più grande di me». Subito si corregge, però, e spiega che si tratta di venti mesi, non di venti anni.

In questo romanzo, come in buona parte delle sue opere, Pamuk fa un ammicco al lettore, lancia perfino un incitamento, per suggerirgli di non fidarsi della narrazione. Già nella terza pagina, Cem si domanda: «Ma che cos'è ciò che chiamiamo pensare, in ogni modo?». Tutto si rifrange attraverso la memoria, inclusi i ricordi altrui. L'empirico è relativo e per abitudine soggetto alla contingenza di molteplici punti di vista narrativi. Ne «La donna dai capelli rossi», Cem racconta al costruttore di pozzi la storia di Edipo, anche se in quel momento aveva letto soltanto l'autorevole saggio di Freud, non la tragedia originale di Sofocle. La capigliatura della donna in questione, per quel che conta, si rivela non essere rosso naturale, bensì tinta. Questo genere di ingegnosa arguzia richiama l'osservazione di John Updike secondo cui Pamuk l'inventore certe volte assomiglia all'«arte che gioisce dei suoi stessi poteri». In ogni caso, getta luce anche su alcune sfaccettature della sua immaginazione, come pure su uno dei suoi grandi temi: quello dell'identità e dell'autenticità.

Pochi lettori di Pamuk saranno colti di sorpresa scoprendo che la prima ambizione dello scrittore fu quella di dipingere. All'inizio di questo romanzo, accampati sul riarso pianoro dove avrebbero scavato il pozzo, Cem dice che sono «appollaiati su un'arancia colossale sospesa nello spazio» (Pamuk finge che il suo personaggio stia semplicemente ricalcando uno dei primi astronauti che disse che la Terra sembrava un'arancia). «Il mio nome è Rosso» è una storia impregnata di colore, tenuto conto che una delle sue strutture portanti è la dialettica est-ovest tra due scuole di pittura: la riproduzione “a memoria” delle miniature persiane di derivazione ottomana contrapposta allo stile veneto o “degli antichi franchi” della pittura dal vero. In ogni caso, di sicuro il suo colore più acceso è il «rosso assolutamente senza eguali» che uno dei personaggi principali uccisi vede, per così dire, dopo la propria morte.

Nel caso di alcuni scrittori come Tolstoj, Proust e Nabokov, dice Pamuk, «l'accuratezza del dettaglio visivo e del ricordo è fondamentale». Per altro, «mi definisco uno scrittore visivo», aggiunge, perché «prima di scrivere vedo la scena nella mia mente come se vedessi un quadro». Tutti gli scrittori lavorano così, dice: «Prima hai l'intero film in mente, poi con le parole cerchi di convertire quell'immagine in un testo, e poi un'altra persona legge quel testo e cerca con la sua immaginazione di evocare quella stessa immagine. Questo è quello che facciamo».

L'identità con Pamuk è fluida: scompaginata, sbagliata, squarciata, supposta, scambiata, sottratta, al punto da mettere in discussione l'idea stessa di identità. Durante una sua visita a Teheran, Cem vede un calendario con la rappresentazione di Rostam che piange il figlio morto Sohrab, e si sente «come se in qualche modo fossi rimasto orfano». Tra sé e sé riflette: «Gli iraniani non sono come noi turchi che ci siamo occidentalizzati al punto da dimenticare i nostri poeti antichi e i nostri miti. Loro non li avrebbero dimenticati mai». In «Il mio nome è Rosso» l'assassino dice che lo stile personale è senza radici, banale.

Quando gli chiedo se questo non ricalchi un po' l'osservazione di William Blake a proposito del «Paradiso perduto» di Milton – che i versi migliori sono per Satana – Pamuk si scioglie in ammirazione per Blake, «un poeta nato, un pittore nato – mio Dio, ho sempre desiderato essere così». Parliamo del magistrale monologo di Satana in «Il mio nome è Rosso» – «devo ammettere che qui il diavolo è un po' borgesiano», dice ridendo. Ma l'identità è davvero il suo tema più importante? «Non mi sentirei di escluderlo». «Sono turco e ogni cosa è correlata alla storia culturale - dice - La posizione geografica della Turchia, tra est e ovest, è anche la sua posizione filosofica, influenzata da due civiltà. Qui i partiti politici affermano che una civiltà è il bene e l'altra è il male. Oggi viviamo una gran brutta fase della storia turca. C'è una metà della nazione, approssimativamente, che vuole sbarazzarsi dell'altra metà» e tutto ciò è «legato a stili di vita, cultura, testi, religione».

Come la maggior parte dei suoi connazionali, Pamuk è rimasto sconvolto dal violento golpe dell'estate scorsa, per quanto fallito, perpetrato da alcune correnti delle forze armate. Confessa di essere sconcertato dal fatto che questo bastione laico creato da Mustafa Kemal Ataturk, il padre fondatore della Turchia, si sia lasciato infiltrare dall'oscuro movimento islamista che il governo afferma aver dato il via al colpo di stato sotto la guida di Fethullah Gulen, ex alleato di Erdogan e imam residente negli Stati Uniti. «Avevo l'inconsistente convinzione che l'esercito si proteggesse da solo» dice Pamuk. «In seguito, abbiamo appreso che era stato il partito al governo a collocare quelle persone che hanno attuato un golpe militare all'interno delle forze armate».

Pamuk, che nell'era di Erdogan per due volte ha dovuto rispondere di altrettante incriminazioni e con riluttanza ammette di avere un ruolo come intellettuale pubblico, concorda sul fatto che la repressione attuata dopo il fallito colpo di stato sia mirata non soltanto a sradicare gli ideatori del complotto gulenista, ma anche a mettere a tacere ogni dissenso. È turbato, in particolare, dal caso di Ahmet Sik, incarcerato dieci anni fa per un libro che svelava la penetrazione gulenista nello stato agevolata dal governo. Sik oggi è di nuovo dietro le sbarre per assurde accuse di complicità con i cospiratori. «Il nostro stato lo ha sbattuto in prigione con l'accusa di essere seguace di quel religioso» quasi grida Pamuk, «quando invece tutti sanno che lo ha fatto perché lui con coraggio aveva criticato Erdogan. Il caso di Ahmet Sik è uno scandalo che spiega con chiarezza in che modo accuse arbitrarie possano farti finire in carcere se critichi troppo il governo».

Pamuk procede a zigzag tra un pessimismo palpabile e un ottimismo dichiarato. Parla ripetutamente del gran numero di epurazioni, di persone rimosse dai loro incarichi e chiuse in carcere – si calcola che oggi nella regione siano rispettivamente 110mila e 45mila – in uno stato di inorridito ed esterrefatto stupore. E tuttavia, dice, a sconvolgere non è tanto il loro numero quanto «l'umanità di queste persone», molte delle quali potrebbero non essere mai più in grado di guadagnarsi da vivere per sé e per le loro famiglie. «Sono queste le cose che ti annientano l'anima. Non si possono accettare». Né si può non notare quanto tutto ciò contrasti con la sua esistenza, una vita libera seppur limitata sotto taluni aspetti.

«Sto vivendo un periodo tra i più intensi e prolifici, dal punto di vista del mio lavoro. Vuoi sapere perché? Presumibilmente è un modo per evadere, in un certo qual senso, da questi fatti. Lavoro molto e con successo, ne sono felice, ma di certo questo è un modo per allontanarmi dalla realtà - dice - Mi sento colpevole. Vivo libero, sono fuori [di prigione] – ma uno si sente colpevole e non è uno stato d'animo che mi appartiene. Tutti i miei amici intellettuali provano la stessa sensazione» dice. «Qui, per sopravvivere, soprattutto in quest'ultimo anno così spaventoso sul piano della politica, devi imparare a essere ottimista» dice Pamuk. «L'ottimismo talvolta può non essere razionale, può non essere empirico, ma si basa sul forte desiderio di continuare a vivere in questo Paese».

Pamuk dubita che il partito al governo in Turchia e con radici nell'Islam possa essere effettivamente in grado di architettare a livello sociale l'allontanamento del Paese dal laicismo kemalista dei suoi fondatori. Ataturk ebbe una nazione piccola e relativamente omogenea da irreggimentare. Erdogan ha un Paese molto più grande, più ricco e più diversificato da cercare di forgiare. La crescita economica negli ultimi 15 anni di governo di Erdogan eccede di gran lunga quella dei primi cinquant'anni di vita di Pamuk, dice, ed ecco dove sta il vero dilemma di Erdogan. «Erdogan ha reso questo Paese molto più ricco… Abbiamo assistito alla nascita di nuove classi medie che non accetteranno mai più le sue prepotenze». Nel momento del suo massimo potere, il leader moderno che comanda in Turchia è anche una vittima del suo stesso successo.

David Gardner è caporedattore degli Esteri del FT. Il romanzo di Orhan Pamuk «La donna dai capelli rossi» è pubblicato in Italia da Einaudi

Traduzione di Anna Bissanti

© Riproduzione riservata