Sino a qualche decennio fa i giornalisti erano considerati dei letterati e nessuno si meravigliava quando venivano chiamati a ricoprire incarichi politici. L'accademia non li considerava scrittori dilettanti, come fa oggi; certo, continua a chiederne i favori, ma desidera non confondersi o contaminarsi con essi.
E' difficile stabilire se Indro Montanelli, che rifiutò la poltrona di senatore a vita offertagli da Cossiga, fosse scrittore, giornalista o politico, perché questi ruoli li esercitò contemporaneamente.
E che dire di Luigi Albertini, il mitico direttore del “Corriere”? Nessuno avrebbe recato particolari veti se fosse stato nominato primo ministro nell'Italia liberale. Giuseppe Prezzolini poteva tradurre Hume nella collana filosofica della Laterza, che fu ideata da Benedetto Croce e Giovanni Gentile, dirigere la “Voce”, scrivere montagne di articoli o libri, insegnare in un'università americana senza che nessuno trovasse da ridire.
Oggi l'aria che tira è ben diversa. I giornalisti, nonostante quel che si ripete, contano sempre meno e i loro compensi stanno diminuendo come le copie dei giornali di carta. I loro libri, poi, sono ormai considerati inutili per concorsi accademici o prove culturali. E forse, visto che taluni sono realizzati raccogliendo articoli con un titolo a casaccio, incoraggiati da un'editoria che punta al provvisorio, è bene che sia così.
Eppure c'è un giornalismo che fa parte della nostra storia culturale. Per tale motivo è nata “Ante litteram”, la nuova collana dell'editore Aragno diretta da Luigi Mascheroni (giornalista non superficiale, anzi): riporterà alla luce quegli autori italiani del Novecento che furono dei letterati e, al tempo stesso, dedicarono molte delle loro energie al giornalismo.
I nomi fatti per dar vita alla serie sono presto detti: oltre i ricordati, vale la pena citare Orio Vergani, Manlio Cancogni, Paolo Monelli, Ugo Ojetti. Quest'ultimo, tra l'altro, scrisse il testo comprensibile del volantino lanciato su Vienna nell'agosto 1918; ché quello vergato da D'Annunzio, in italiano arcaico, non lo capì nemmeno il generale Diaz.
Intanto è uscito il primo titolo: “Firenze”, di Emilio Cecchi (Aragno, pp. 292, euro 20). Apparve nel 1966 da Mondadori e sparì nel volgere di qualche stagione. Prefato per la nuova edizione da Pietro Citati, in esso sono raccolti i testi dedicati dal grande critico e scrittore alla sua città. Da Leonardo al Piovano Arlotto, dai viaggi di Carletti al carattere di Magalotti o a note su Giotto, Cecchi suscita interessi e meraviglia. Sa informare e, al tempo stesso, comunica cultura. Senza le manie e i distinguo odierni.
Già, Cecchi, gran persona. Poteva firmare prefazioni o articoli giornalistici, ma nessuno ebbe da ridire quando tradusse (sempre per la Laterza che fu) testi di Leibniz o quando, con Sapegno, diresse una delle più importanti storie della letteratura italiana, uscita da Garzanti. Per un semplice motivo che bisogna ripetere: allora il giornalismo era anche cultura.
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