Che dietro ogni architettura si muovono capitali è noto; non altrettanto noto è che dietro ogni buona architettura si muovono idee e passioni. Nel 1927, su sollecitazione di Erwin Piscator, Gropius lavorava sull’idea del «teatro totale» proponendo una rivoluzionaria dinamica dei rapporti tra spettatori ed attori. Novant’anni dopo, a Mendrisio, in Canton Ticino, si apre il Teatro dell’architettura, una maestosa costruzione circolare che pare quasi un sigillo al primo ventennale dell’istituzione dell’Accademia di Architettura, l’università della Svizzera Italiana che ha ridisegnato la geografia culturale dell’intero sistema formativo nazionale.
Se non si ha in mente la connotazione strategica di quest’ultima prova di Mario Botta – che dell’Accademia è stato uno dei padri fondatori – si rischia di ridurre ogni commento all’analisi delle caratteristiche fisiche della fabbrica, perdendo di vista la sua più intima ed essenziale funzione strategica: quella di essere un punto interrogativo nella riflessione critica sul ruolo sociale culturale dell’architettura.
Da cosa nasce dunque l’iniziativa che Botta ha perseguito quasi come un impegno personale in modo da renderne possibile l’attuazione? Innanzitutto dalle condizioni che hanno assicurato il successo dell’Accademia sia nell’ambito internazionale che in quello, assai delicato, del contesto svizzero e della politica federale sul piano della cultura di formazione universitaria, in relazione alle linee strategiche e alla storia dei suoi Cantoni. Quando nacque, l’Accademia pose il problema della rappresentazione della cultura ticinese, tradizionalmente vicina a quella italiana, con cui condivide l’impostazione umanistica dell’architetto generalista: una figura intellettuale prima ancora che professionale, che sente l’appartenenza alla società come un dovere etico. Comprendere la portata dei cambiamenti in atto implica da parte della comunità degli architetti la consapevolezza di tutte quelle responsabilità che il progetto comporta in favore dell’organizzazione dello spazio di vita dell’uomo. Non si parte dunque dall’adesione a un linguaggio, ma dall’individuazione dei problemi cui l’architetto è chiamato a rispondere progettando soluzioni: il linguaggio è una scelta di conseguenza dei temperamenti individuali, come dimostra l’organizzazione dell’Accademia per atelier diretti da protagonisti dell’architettura interazionale e portatori di visioni tra loro diverse, ma convergenti appunto sulla condivisione della figura dell’architetto generalista.
Il Teatro dunque è un’iniziativa che nasce dall’interno dell’Accademia per rafforzare la riflessione critica sul ruolo sociale e culturale dell’architettura in questi momenti di forte pressione e di rapidi e incontrollabili cambiamenti. Vuole dare visibilità a un’idea di architettura che non si chiude in se stessa, ma al contrario diventa permeabile alle spinte e alle sollecitazioni dell’arte, della scrittura, del design, della fotografia, della danza, del cinema. Come ha più volte ribadito Mario Botta, «si rivolge a un nuovo tipo di fruitore: un uomo libero, un uomo “qualunque” che accede a queste suggestioni del vivere senza particolari riferimenti a uno status sociale, senza condizionamenti a priori».
In quest’ottica, il Teatro dell’Architettura non è il teatrino delle vanità individuali, la vetrina dei singoli talenti, ma decisamente il laboratorio dove si costruisce un’idea allargata di comunità: in un territorio come quello delle Prealpi che è diventato meta di costanti flussi migratori e quindi costretto a ripensare il suo modello di sviluppo e di solidarietà, il Teatro deve diventare il palcoscenico dove questi cambiamenti prendono evidenza, segnalando i nuovi comportamenti in atto e le possibili chiavi d’interpretazione.
All’Accademia di Mendrisio si insegna ai futuri architetti che la cultura del progetto ha il privilegio, e la responsabilità, di leggere, interpretare e indirizzare i cambiamenti di cui il Teatro può diventare il punto di massima visibilità. Come i teatri anatomici nelle antiche scuole di medicina, con la sua forma circolare esso prefigura l’idea dell’università come arena dove la cultura diventa espressione disciplinare della politica. Con il suo volume serrato come un tamburo di pietra, completa il disegno del campus aperto dell’Accademia, sottolineandone il legame con l’abitato: dopo il palazzo Canavè e accanto al palazzo Turconi, è il segno dominante del piccolo puzzle che è cresciuto in questi vent’anni nella cittadina ticinese: con tre piani fuori terra e la grande tenda di copertura, la sua presenza ,al tempo stesso austera e imponente, sottolinea il carattere comunicativo dell’architettura, la sua capacità di lanciare messaggi. Un Teatro (ma in fondo anche un circo, stabile e di pietra) dove si rappresenta la condizione umana. Una macchina (come quelle di Riccardo Blumer che accoglieranno i visitatori nel primi giorno di apertura) dove mostre, dibattiti, lezioni ed eventi saranno aperti anche alla cittadinanza e ai visitatori internazionali che si riverseranno nel grande vuoto della piazza interna scandita dalle balconate concentriche con cui Botta ha cercato di sintetizzare in maniera immediata la sua idea di una visibilità totale tra le arti del progetto. Un’immagine semplice, che si imprime con immediatezza nella mente di tutti e in qualche modo suggerisce subito la sua funzione di catalizzatore del pubblico, come quasi sempre accade alle architetture “sintetiche” di Mario Botta, caratterizzate dalla memoria di una geometria che evoca un ordine perentorio, ma non scostante.
Chi conosca la storia formativa dell’architetto ticinese, non si meraviglierà di scoprire che sarà una grande mostra su Louis Kahn e Venezia a inaugurare nell’ottobre 2018 il nuovo Teatro: più che inventore di forme, per Botta Kahn è il maestro che ha insegnato il valore dell’architettura come atto di resistenza. L’ermeticità delle sue figure – corroborata dalla “lezione” di Roma – esprime il messaggio di difesa della stabilità del costruito nella prefigurazione dell’evanescenza della società fluida: il punto dove il documento diventa monumento. Più romanica che romana, l’architettura di Botta riflette un’aspirazione identitaria che fa coincidere la storia di quel lembo di terra svizzera con le origini millenarie della sua più autentica vocazione costruttiva, quella dei maestri comacini, che nei loro spessi sarcofaghi di pietra celebrarono la necessità della tradizione come viatico per il futuro.
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