Quanto dista il Regno dei Cieli da Memphis, terra di blues, soul e rock and roll in riva al Mississippi? E da Detroit, capitale dell’automotive e dell’r’n’b? E ancora da Sheffield, Alabama, dove i bianchi presero gusto a suonare con i neri? Se sei figlia di un pastore battista, ti sei fatta le ossa nei cori gospel e hai messo la stessa carica esplosiva quando si trattava di cantare Otis Redding e i Beatles, fino a diventare un simbolo per i neri, una leggenda per i bianchi e un esempio per tutte le donne, puoi dormire sonni tranquilli: è in prima fila tra i cori celesti Aretha Franklin, la regina del soul, morta oggi a 76 anni a Detroit.
Il cancro e l’annuncio del ritiro
Nel 2010 le era stato diagnosticato un cancro. Non aveva smesso di esibirsi, per quanto i suoi impegni si fossero sensibilmente
diradati: l’ultima performance, a New York per la Elton John Aids Foundation, risale a novembre dell’anno scorso. Su indicazione
dei medici, Aretha aveva già cancellato due concerti: non si era esibita il 25 marzo, giorno del suo 76esimo compleanno, a
Newark in New Jersey, né il 28 aprile a New Orleans. «Il medico le ha ordinato assoluto riposo almeno per i prossimi due mesi.
È molto delusa per non essere in grado di esibirsi come sperava», aveva fatto sapere il suo manager. L’anno scorso la cantante
aveva annunciato l’intenzione di ritirarsi dalle scene, fatti salvi alcuni impegni selezionati, per dedicarsi al riposo e
alla famiglia. Questo è il momento del pubblico cordoglio, con tutti i crismi del caso per un’artista che ha infilato 75 milioni
di copie vendute in giro per il mondo, 18 grammy e il record di prima donna ammessa al pantheon della Rock and Roll Hall of
Fame. Patrimonio economico accumulato, in qualcosa come 60 anni di attività, stimato in 60 milioni di dollari.
Gli esordi gospel
La sua avventura è partita in chiesa. Nata a Memphis da un pastore battista dalla vita privata piuttosto movimentata (i genitori
si separano quando Aretha ha sei anni), trascorre l’infanzia viaggiando, con due punti fermi prima di tutto il resto: Dio
e la musica. Che, se sei figlia di un pastore battista, si riassumono nella stessa parola: gospel. Con le sorelle Carolyn
ed Erma dà spettacolo alla parrocchia di Detroit in cui papà officia, frequentata all’epoca da una comunità che sfiorava i
5mila fedeli. Se cresci così, il pubblico non potrà mai farti paura.
Come spesso accadeva in quella comunità, resta incinta giovanissima, fa addirittura due figli a 14 e a 16 anni, ma ciò non
la distoglie dal grande sogno di dedicare la propria vita alla musica, condiviso con la sorella maggiore Erma. E la musica,
per loro, fino a quel momento è il gospel. Cominciano a frequentare la Motown, visto che si trovano a Detroit, fanno amicizia
con il patron Berry Gordy, senza tuttavia cavarne un ragno dal buco. L’esordio di Aretha arriva nel 1956: l’etichetta gospel
Jvb Battle la registra piano e voce mentre si esibisce nella New Bethel Baptist Church di Detroit. Nulla che lasci il segno.
La svolta con la Atlantic
La voce della ragazza, però, è buona e allora la Columbia decide di metterla sotto contratto, commettendo l’errore di affidarle
un repertorio pop troppo «educato» per le sue corde. Ne ricaveranno qualche singolo di successo, come Rock-a-bye your baby with a Dixie melody e nove album che non scaladano i cuori. La sorella Erma, intanto, firma per la Epic e sembra superarla sulla strada per il
successo. Ma la vita, come si sa, è tutta un gioco di porte scorrevoli: Aretha ha la fortuna di incontrare il produttore Jerry
Wexler e, dal 1967, cambia scuderia, accasandosi alla Atlantic di Ahmet Ertegun. È la svolta: Wexler la porta a incidere nei
leggendari studios di Muscle Shoals, in una palude di Sheffield, Alabama, dove le tradizioni musicali bianche e nere d’America
ribollono insieme.
«The Queen of Soul»
Nasce così la leggenda di «The Queen of Soul», tra titoli fondamentali come I neverd loved a man the way that I love you, Aretha Arrives e Aretha Now, il canzoniere di Otis Redding, il più grande autore soul di tutti i tempi, a dare manforte e le cover di artisti bianchi
che, affidate alla prodigiosa voce della Franklin, entrano di diritto nell’immaginario della black music. Se da un lato Aretha
«diventa» la Eleanor Rigby dei Beatles, cantata in prima persona, e ripercorre la mistica di The Band in The Weight, la Respect di Redding ci mette poco a diventare bandiera dell’orgoglio nero. E Do Right Woman è addirittura un manuale di istruzioni per l’uso per le ragazze alle prese con rapporti di coppia turbolenti. Perché bisogna
anche saper dire no.
«Think», inno di un pezzo d’America
Poi ci sono I say a little prayer, una tra le migliori interpretazioni del corpus di Burt Bacharach di sempre, e (You make me feel like) A Natural Woman, una tra le migliori intetrpetazioni del corpus di Goffin e King di sempre. La storia si scrive così. Negli anni Settanta
Aretha perde smalto. Lo ritroverà nel 1980, quando John Landis le affida il ruolo della moglie-padrona del chitarrista Mutt
Murphy nel film The Blues Brothers e lei si produce in una impareggiabile versione di Think, nella tavola calda di famiglia. Due minuti e 16 di puro groove pronti a esplodere in un grido che, nel 1968, era stato il
grido di tutto un pezzo d’America: «Freedom». L’America - nera e bianca insieme - che si riconosceva in Aretha.
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