«Inge Feltrinelli è stata una donna di cultura e di società che ha saputo dare un'anima alla casa editrice. I primi due elementi potevano essere naturali, quasi scontati. Il terzo elemento non lo era. Quest'anima è la sua maggiore eredità. Per la casa editrice e per la sua famiglia, per la nostra città e per tutti noi». Guido Roberto Vitale, banchiere d'affari ed esponente della borghesia di Milano, traccia di Inge Feltrinelli un profilo nitido e non lacrimevole, di una conoscenza non sentimentale che sarebbe piaciuta alla Signora dell'Editoria. Il suo è un amarcord milanese nel senso austro-ungarico, un poco come era lei.
«Il suo inner circle si radunava a Villadeati, in Monferrato, nella tenuta di campagna. La loro casa privata in Via Andegari era sempre aperta e ospitava le personalità più eterogenee». Una abitazione in cui i grandi scrittori stranieri – come Jonathan Coe, Manuel Vázquez Montalbán e Richard Ford – si potevano mescolare agli amici e ai conoscenti milanesi. Perché, da lì, sono passati tutti. I grandi professionisti della Milano storica come i Lazzati, i Cicoletti e i Tesone. Fino all’avvocato Guido Rossi, autore di testi fra la filosofia del diritto e la geopolitica per la concorrente Adelphi, e ai più giovani, come lo scomparso Alessandro Pansa, già amministratore delegato di Finmeccanica e poi vicepresidente della Feltrinelli.
«Lei è stata importante soprattutto dopo la morte del marito Giangiacomo», ricostruisce Vitale. «Per noi era ed è chiaro. La sua presenza carismatica e concreta ha evitato alla Feltrinelli, come comunità culturale, riferimento civile e anche impresa economica, di essere inghiottita dai tempi più bui e ha accompagnato, con la sua eleganza e la sua energia, il risanamento degli anni Ottanta e il consolidamento degli anni Novanta, fino a quest’ultimo periodo, segnato anche dall’operazione culturale ed estetica della nuova sede della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, uno dei nuovi cuori di Milano. Certo, nel gruppo imprenditoriale la guida operativa è toccata prima ai manager e poi al figlio Carlo. Ma, davvero, lei ha influito molto».
Nelle parole di Guido Roberto Vitale si mescolano la conoscenza personale, lo sguardo del banchiere e l’intuito dell’appassionato di editoria. «Lei è riuscita a mantenere nella Feltrinelli quel tratto di versatilità che aveva, per esempio, caratterizzato l’attività della casa editrice fin dagli anni Cinquanta, quando erano stati pubblicati nel 1957 il Dottor Zivago di Boris Pasternak e nel 1958 Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa». Una cifra culturale e una disponibilità all’apertura presenti nel codice genetico feltrinelliano, qualcosa di molto milanese. «Se pensiamo alla Einaudi di Torino – riflette Vitale – troviamo una cultura di fondo e una linea politica più rigorosamente di sinistra. Nella casa editrice e nella Fondazione, soprattutto dagli anni Ottanta in avanti, è emersa una attitudine estroversa e aperta che, in fondo, rispecchiava nella sua anima anche l’anima di Inge». Dunque, sia nel rapporto con la società – messo in risalto dalle frequentazioni della sua casa milanese – sia nel rapporto con il mercato Inge Feltrinelli non è stata affatto una Madame Verdurin.
Negli anni Settanta diventa ancora più profondo il rapporto fra Inge Feltrinelli e Milano. Qualcosa allo stesso tempo di popolare e di élitario. «Le attività culturali della famiglia e le librerie di quartiere – nota Vitale – hanno avuto una influenza profonda sulla vita della città. E, a un certo punto, lei è diventata centrale per la borghesia milanese. C’era lei. C’era Giulia Maria Crespi. C’era l’ambiente del Corriere della Sera». È il passaggio storico in cui, prima del riflusso degli anni Ottanta, diventa definitiva una saldatura fra la classe dirigente economica e la sinistra della città.
Inge Feltrinelli prosegue nella costruzione di un preciso impianto economico, basato sulla doppia funzione della casa editrice e della libreria. La prima libreria era stata aperta nel 1957 a Pisa. La seconda, nello stesso anno, a Milano, in via Manzoni angolo via Montenapoleone. Alla morte di Giangiacomo, le librerie Feltrinelli erano otto. Inge, che era stata il suo braccio destro, persevera nello stesso modello economico e culturale, aprendo nel 1972 a Torino, nel 1975 a Padova, nel 1976 a Bologna e, nello stesso anno, a Roma a Largo di Torre Argentina. Nel complesso equilibrio della finanza di impresa – fra progettualità culturale e denaro con cui realizzarla – c’è storicamente stata una differenza fra le librerie che hanno sempre prodotto cash flow e la casa editrice, sottoposta ad un rischio di impresa strutturalmente molto forte e con margini di guadagno per definizione risicati.
Basta leggere le lettere di Giangiacomo al suo amministratore Giampiero Brega, in cui garantisce ogni anno la copertura delle perdite. E, nei decenni successivi, nelle altre case editrici si è sempre detto che, per superare un momento difficile, era sufficiente che i Feltrinelli vendessero un bosco in Carinzia. Anche se, periodicamente, il gruppo ha dovuto riorganizzarsi, siglando per esempio nel 2015 un accordo con le banche per il rifinanziamento del debito e separando gli immobili dal core business e tornando – nel 2017 – in utile dopo cinque esercizi in rosso.
«Di certo – sottolinea Guido Roberto Vitale – hanno sempre messo i soldi di famiglia. Loro che sono di sinistra si sono dimostrati dei veri capitalisti. La lezione di Inge e oggi di suo figlio Carlo a tutti noi è stata anche questa: che esiste una dimensione etica economica e civile che va al di là della ideologia».
© Riproduzione riservata