La pena più severa la prevedeva un decreto dell'isola di Paros, II a.C.: condanna a morte, per chiunque distruggesse i documenti dagli archivi. Perché cancellare ciò che è scritto significa alterare la trasmissione della memoria. Ed è esattamente quello che invece, in epoche molto più vicine, mani ignote hanno fatto molte volte. Con i documenti di Peppino Impastato, di cui ora il fratello chiede la restituzione, dopo la fine per prescrizione dell'ultimo processo; con la borsa di Carlo Alberto Dalla Chiesa, sparita dall'auto del delitto; i file del pc di Giovanni Falcone; la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino, la cui scomparsa- secondo i pm della trattativa - rappresentò il primo atto di depistaggio.
E poi tutto tutte le carte che potevano avere cronisti come Giancarlo Siani e Mauro De Mauro, fatti sparire insieme alle verità che stavano scoprendo. «Perché solo chi conosce l'importanza che la mafia attribuisce all'informazione e alla sua forza dirompente riflette Nando Dalla Chiesa, figlio del generale dei carabinieri, ucciso a Palermo trentasei anni fa, e studioso di dinamiche criminali
può comprendere le costanti di molti delitti».
La mafia zittisce le proprie vittime, pezzi opachi degli apparati completano il lavoro. Ed è sulle tracce di questi documenti
spariti - come anche parte del memoriale di Aldo Moro, quello di cui si parlò dopo il blitz di via Fracchia a Genova - che
si mette Storiacce in questo numero di IL, in edicola da venerdì 26 ottobre per un mese.
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