Ho riletto L’immoralista di Gide. Tempo di riletture, da qualche anno. Si rivede la vita, alla mia età, quindi, perché no?, si rivedono anche i libri letti. Spesso non si ricorda d’averli letti e si scopre a un certo punto, magari dopo pagina 100, una sottolineatura, un appunto in margine a matita. E allora s’infila in noi l’orrendo sospetto d’aver già compiuto la lettura di quel libro; sospetto che non sarebbe di per sé orrendo, se non equivalesse al pensare che la lettura ora ci appare del tutto nuova, come se mai si fosse prodotto il fatto d’aver già letto, e annotato, e sottolineato quel libro. Mai. O almeno non nella nostra vita, forse in quella di un altro. Ecco allora che ci esercitiamo caparbiamente nell’arte di non riconoscere la nostra calligrafia a margine, così che ci venga consentita l’opzione che forse qualcun altro, un amico, un familiare, abbia letto prima di noi e annotato. Ma qualcosa ci riporta sempre inesorabilmente a noi, la svirgolettatura di una a, il modo tutto nostro di mettere l’accento sulla e…
Dell’Immoralista non ricordavo nulla; non la trama, non il protagonista, l’ambiente, i luoghi, gli altri personaggi. Nulla. Ma ricordavo benissimo d’averlo letto e molto amato.
Ho amato tutto Gide, in quell’età avida dei quattordici-quindici anni quando il mondo dei libri ci si apre davanti immenso, misterioso e foriero di un’avventura mentale che, lo intuiamo, ci renderà adulti e ci forgerà la vita intera futura. Il mondo dei libri francesi, in particolare, per quel che mi riguarda. Leggevo solo i francesi, a quell’età. Casualmente. E il caso – un destino! – era che la mia insegnante di francese fosse una donna eccezionale. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei, anche buttarmi nel fuoco. In mancanza del fuoco, leggevo i libri della sua letteratura e me ne innamoravo. Come ci sono amori per interposta persona, così ci sono amori per interposizione di libri: voglio dire, ovvio che mi ero innamorata della mia insegnante di francese…
L’immoralista è un libro bellissimo. Molto francese. Molto decadente. Molto intriso di Nietzsche, anche. E molto moderno. È assolutamente necessario leggerlo - o rileggerlo - oggi. Fin dal titolo: nessuno oggi intitolerebbe un romanzo così. Immoralista è una parola che oggi non si usa, una parola che, direi, si è spenta. Che le parole si spengano e si riaccendano è un dato di fatto incontestabile, mi pare, visto che le parole hanno una loro storia millenaria che, come la nostra, è fatta di cicli e ricicli. Dimenticanze e improvvise e lancinanti memorie. La parola immoralista ha dentro un che di battagliero: è un’opposizione. È andare contro una morale. Amorale invece è prescindere da ogni morale, è indifferenza.
Michel, il protagonista del romanzo di Gide, è a suo modo uno che si oppone al mondo, va contro. È un giovane che ha ricevuto una rigida educazione puritana e si è dato agli studi della filologia classica. Sposa Marceline, pur non amandola, per compiacere il padre, per conformarsi ai modelli comuni, studiare, lavorare, sposarsi. Nel viaggio di nozze si ammala di tubercolosi. E attraverso il male che mina la sua vita, impara ad amare la vita. O meglio, scopre un altro possibile modo di vivere, più naturale, tutto sensoriale. Arrivato a Tunisi, s’inebria della terra d’Africa, assapora i profumi dei giardini, i paesaggi notturni rubati al sonno, le infinite mutazioni dell’attimo, il contatto dell’essere con la natura, la bellezza in tutte le sue forme, anche la bellezza irresistibile dei fanciulli africani. Rinnega i libri, la cultura, l’educazione severa, la dedizione al passato, la memoria. Lo studio, l’insegnamento, la frivolezza dei salotti parigini ormai lo annoiano. I colleghi archeologi e filologi, gli amici poeti, romanzieri e filosofi, che considerano la vita «un fastidioso impedimento allo scrivere», gli appaiono estranei e stucchevoli: «Nessuno di loro ha saputo essere malato. Vivono, danno l’impressione di vivere e di non sapere che vivono».
Michel rifiuta ogni forma di conformismo, di adeguamento a modelli. Rincorre la parte unica di sé, originale, solitaria, libera, e quindi indifferente al bene degli altri. Non è più disposto a sopprimere quel che sente essere la sua vera natura. E rinasce. Resuscita a una “vita più aperta e libera, meno costretta e legata agli altri”. Scopre “l’essere autentico, quello che tutto intorno a me, libri, maestri, genitori e io stesso, ci eravamo sempre sforzati di sopprimere”. Inizia a disprezzare l’altro se stesso, «l’essere secondario, costruito, che l’istruzione aveva formato al di sopra». E sente di voler «scuotersi di dosso quelle sovrapposizioni».
E in questa forma di assoluta dedizione al nuovo se stesso, in un parossismo di egocentrico piacere, dimentica ogni dovere e cura verso l’altro: quando Marceline si ammalerà anche lei di tubercolosi, invece di dedicarsi a curarla come lei aveva fatto con lui, le impone un viaggio estenuante dalla Svizzera, dove stava lentamente ritrovando la salute, verso il sud, i climi caldi, il sole, i profumi, verso l’Italia e poi di nuovo l’Africa, la sua Africa, la luce di Tunisi dove «l’aria stessa è come un fluido luminoso in cui tutto affonda, dove ci si immerge, si nuota», dove «la terra voluttuosa seconda il desiderio ma non lo placa, ed ogni piacere lo esalta». Fino a Biskra, dove Michel aveva iniziato a guarire e aveva scoperto il suo essere autentico. Lì cerca quei fanciulli bellissimi che allora lo avevano incantato, e li ritrova inevitabilmente cresciuti. Mentre matura la sua delusione e impara dal vivo una delle lezioni che già gli aveva impartito il collega Ménalque: «non c’è niente che ostacola la felicità quanto il ricordo della felicità», Marceline peggiora, fino a soccombere. Michel l’ha uccisa, col suo forsennato egoismo, inseguendo il suo bene, il richiamo di una libertà che lo porta sempre più lontano.
Non credo che oggi definiremmo Michel un immoralista. Non ci verrebbe neanche in mente. Lo iscriveremmo normalmente all’ambito di quella cultura dei diritti che oggi ci pervade.
È per questo che dovremmo rileggere il romanzo di Gide, per essere messi di fronte a quell’eterno conflitto, che mi pare ora molto obnubilato, tra natura e cultura, tra libertà e doveri. Tra il rigore delle leggi che c’incarcera nella fedeltà ai modelli ma anche ci regala la pace di una vita morale, e la sfrenatezza imperiosa dell’io che si dedica solo a se stesso e ci getta nell’abisso di un bieco self interest.
L’aspetto rilevante è che qui l’essere autentico viene contrapposto all’essere “costruito” dalla civiltà e dalla cultura. Mi chiedo se oggi in tale conflitto non si stia dibattendo l’intera nostra civiltà occidentale, e non soltanto il singolo individuo. Mi sembra di scorgere, in molte manifestazioni del nostro vivere attuale, proprio questa ricerca di un’autenticità che, per essere tale, vuole spogliarsi di ogni memoria, di ogni patina anche solo vagamente culturale. Penso a una certa aspirazione a tutto ciò che sembri spontaneo, naturale, primitivo. Penso al fastidio che oggi molti provano verso tutto quel che riveli una cultura, una patina di tradizione, una sostanza profonda, qualcosa che si sia sedimentato e abbia fatto di noi quel che siamo, attraverso i millenni; alla voglia di liberarsi dello studio, della fatica, del sapere; al disprezzo verso chi di quello studio si sia nutrito e abbia perseguito, per esempio attraverso i libri, una forma di conoscenza.
Vagheggiamo forse un novello stato di natura. Propendiamo pericolosamente per una certa rozzezza dei modi, dei gesti, del linguaggio credendo che sia sinonimo di autenticità, libertà, apertura. Ma potrebbe essere soltanto l’espressione selvaggia di una civiltà che sta cercando di rinnegare se stessa.
È possibile che, in nome di una fittizia autenticità, ci stiamo privando di quella cultura che ci ha reso grandi. E mi viene da farmi qualche domanda. Autentico deve per forza contrapporsi a cultura? Si può essere colti e allo stesso tempo autentici? Studiare e vivere contemporaneamente? Oppure scrivere (e leggere) non è mai vivere? Il mito di quale umanità stiamo rincorrendo? Cos’è questo nostro tendere al ruspante, al viscerale, a un vivere «di pancia» (orrenda espressione che sento ormai ovunque) che si contrappone al pensiero, all’analisi, e anche alle buone maniere, allo stile, a un’eleganza del vivere? La cultura è davvero una «costruzione» di cui è bene liberarsi?
La cultura sarebbe dunque un limite, qualcosa che ci «riduce»? O non è piuttosto la chance di averli, dei benedetti limiti, l’ultimo baluardo che ci protegge dall’arroganza della hybris?
E infine, fino a che punto ci è lecito perseguire il nostro personale piacere, ottemperare alla parte più vera e libera di noi, perseguire la nostra autorealizzazione? Anche a discapito dell’altro? Quanto limitiamo la libertà dell’altro, cercando la nostra? Ci spingeremmo fino al punto, anche, di produrre la sua rovina?
Potrebbe essere un nuovo immoralismo, il nostro. Lavarsi la coscienza proclamando astrattamente il dovere planetario di una bontà sempre più s-confinata e un «diritto ad avere diritti» (per dirla con Rodotà) sempre più universale, e intanto coltivare indisturbati ognuno il proprio sfrenato e immarcescente individualismo.
Era il 1902 quando Gide scriveva L’immoralista. Sono passati centodiciassette anni, ma le domande che riguardano l’uomo sono sempre le stesse.
Il romanzo di Gide, come tutti i grandi romanzi, per fortuna non dà risposte. Non indica una via, non giudica, non prende posizione. Ci mette semplicemente davanti a un’idea, e la spinge, narrandola attraverso la storia dei personaggi, fino al limite estremo.
Stare a guardare quell’abisso è oggi, almeno come lettori, l’ultimo dovere che ci resta.
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