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Qui giace chi ha lavorato troppo

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epitaffi greci

Qui giace chi ha lavorato troppo

La morte  del guerriero. Il cadavere  di Ettore rientra  a Troia, particolare  di un sarcofago marmoreo romano  (180–200 d. C.)
La morte del guerriero. Il cadavere di Ettore rientra a Troia, particolare di un sarcofago marmoreo romano (180–200 d. C.)

Il settimo libro dell’Antologia Palatina disegna mediante settecentoquarantotto epitaffi poetici, creati appropriatamente e citati in fonti letterarie, un vastissimo cimitero sotto la luna di età greca e romana esteso in tutto il Mediterraneo. La loro suggestione risiede o nel contenuto poetico o in quello sentenzioso, nella vivacità della notazione biografica o nel colloquio al vivo che i defunti intrecciano col passante occasionale che guarda e passa. E la loro ingegnosa, sintetica costruzione su personaggi noti, poeti e filosofi: Anacreonte dalla sua tomba ci esorta a bere come lui, prima di essere ridotti come lui in polvere; ed Epicuro è perito in una tinozza bollente di vino.

I settecentoquarantotto epitaffi letterari dell’Antologia si triplicheranno nella raccolta di quelli indistinti, pubblici e privati, nel primo volume delle Griechische Vers-Inschriften di Werner Peek (Berlino, 1955), tratte dal reale oltreché dai fondi letterari. E di lì la versione italiana ora edita da Bompiani nella collana del Pensiero occidentale. Curato da Emanuele Lelli, il volume ospita il greco e a fronte la traduzione approntata da Franco Mosino, una prefazione di Giulio Guidorizzi e un puntuale commento ai testi dello stesso Lelli.

Giunti a noi da ogni parte del mondo ellenizzato e in un arco di secoli dalla Grecia classica ai primi dell’èra romana, questi testi forniscono, spesso in dialoghi fra morti e vivi, un’enorme e varia messe di notizie sociologiche e umane; sulla religiosità, la mentalità, la psicologia.

Ci sono i lavoratori che finalmente riposano: «Questo sepolcro contiene Poliàtlio: era un contadino,| che liberatosi da molte fatiche qui giace»; «Esperto nel tracciare | solchi feraci, con ben costruiti aratri, | nonché a legare, in una selva di canne, il dolce grappolo, | […] conclusi diciotto anni di piena esistenza |giunsi all’oscurità del funesto Lete»; «Noi giaciamo nell’aspra boscaglia, | rustici montanari, per stirpe. Sulla tomba | testimoni del mestiere stanno le scuri, che spaccano il legno»; «Questo è il sepolcro di Nisa, ubbidiente e lavoratrice». I marinai: «Da vivo il marinaio Timone eresse per sé questo segnale | come ricordo e come luogo di buon porto al riparo dai frangenti». I commercianti: «Cretese per stirpe, Bròtaco di Gòrtina, qui giaccio, | venuto non per questo, ma per commercio».

Ci sono podisti che vincono ventidue gare olimpiche, pitiche e nemee; un pugile che cade sul palco al tredicesimo scontro dopo dodici vittorie; un gladiatore che muore di malattia dopo essere scampato tante volte al ferro.

E i professionisti: «Medico a tutti caro, assennato ed eccellente, | per poco ho goduto della vita»; «Nicomede era eccellente medico, quando era tra i vivi: | salvati molti con medicine indolori, | ora, da morto, è lui senza dolori». E sepolti accanto a tutti costoro, animali diletti e fedeli, il cavallo di Dami trafitto in battaglia da un dardo nel petto; la cagnolina che accompagnò Balbo in tutte le sue navigazioni; un usignolo che rallegrò l’animo dei marinai cantando ispirato da Venere; la velocissima Locride punta in una zampa da una vipera variopinta.

Anche uno schiavo lì può insegnare la somma ed estrema di tutte le filosofie: «Da vivo costui, un tempo, era lo schiavo Mane: ora invece, da morto, | vale lo stesso di Dario il Grande» alla pari di Orazio nelle Odi (II 9): «Che tu sia ricco e disceso dall’antico Inaco, | o povero e d’infima stirpe, | non ha importanza, | preda sarai dello spietato Orco».

E persino su un’attrice si riflette, amari o ancora allegri e beffardi: «Un tempo fra molte genti, e in molte città, | recitò sulle scene | […] e spesso morì sulle scene, ma non così come ora. […] Deposto il tuo musicale corpo nella terra, […] i tuoi colleghi di scena dicono: «Fatti coraggio, | Bassilla, nessuno è immortale». Persino un eunuco filosofeggia da morto: «Essendo io eunuco, il mio destino era privo d’importanza».

Gaio Munazio aveva ottant’anni quando scese nell’Ade reggendosi ancora sulle sue gambe; mentre Callide percorse lo stesso cammino non ancora ventenne, evocando il detto che sta sulle bocche di tutti: «presto muoiono coloro che gli dèi amano».

Dall’amore poi dei mariti e dei parenti nascono i ritratti di alcune bellezze incomparabili: Trifera in Cilicia, a venticinque anni, aveva biondi capelli sul capo e lampeggiava negli occhi fra le palpebre come una Grazia; le guance candide come la neve e una voce seducente nella dolce bocca fra labbra purpuree e denti d’avorio: si può ben intendere come il marito ne serbasse il ricordo e ne avesse rimpianto. Un’altra ventenne fu rapita improvvisamente dall’Ade alla vigilia delle nozze mentre splendeva come una rosa nel giardino con l’umidità della rugiada.

Un reparto a sé (e qui ci si avvicina al recinto dei famosi) è riservato ai caduti in guerra. Uno per tutti, quello per i quattromila Peloponnesi schierati alle Termopili contro tre milioni di persiani, citato anche da Erodoto e attribuito a Simonide: «Di costoro un tempo nei petti le aguzze frecce | bagnò l’impetuoso Ares, con sanguigna rugiada. | […] Come memoria| senza vita dei viventi questa polvere rimase».

E nel famedio l’altra schiera, dei poeti e dei filosofi di mestiere: «Qui la terra cela un sacro uomo: | il celebratore degli eroi, il divino Omero»; «La terra possiede nelle viscere il corpo di Platone: | mentre l’anima divina ha un posto tra i beati».

Sarà... Ma forse le cose stanno diversamente, e qualcuno fece scrivere invece sul proprio sepolcro a Roma nel II secolo d.C.: «Chi può dire, o viandante, osservato un corpo scheletrito, | se fu Ila o Tersite?», il giovinetto amato da Eracle o il più brutto dei Greci a Troia. E ad Atene un paio di secoli dopo, il buon Eraclio: «Chi abita qui? Eraclio bevitore d’acqua: da vivo, amico degli amici, condottiero; da morto, nessuno». D’altronde, nell’Ade non c’è niente, «non c’è la barca, non c’è il traghettatore Caronte | […] né il cane Cerbero; | ci siamo invece tutti quelli di quaggiù. […] Non versate libagioni, non adornate con corone la stele, è pietra! | Non accendete un fuoco: la spesa è inutile. | […] Quel che ero quando non ero, ciò di nuovo divenni».

Così tutte, tutti dormono. Come dormono sulla collina di Spoon River i buffoni, gli ubriaconi, i rissosi, le tenere, le semplici, le orgogliose, le felici; il vecchio suonatore Jones che giocò con la vita per tutti i suoi novant’anni, fronteggiando il nevischio e facendo chiasso, non pensando a nessuno, né a moglie né al denaro, né all’amore né al cielo... Già Filippo Maria Pontani aveva evocato l’Antologia di Spoon River introducendo il VII libro della Palatina; e Lee Masters stesso dichiarò di aver ricevuto a sua volta parecchi suggerimenti dall’antica antologia greca. Ora anche questi Epigrammi greci li definiscono nel sottotitolo La Spoon River ellenica.
Epitaffi greci, a cura di Emanuele Lelli, Bompiani, Firenze, pagg. CVI-1516, € 55

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