Notizie EuropaNon è il ritorno alla guerra fredda
Non è il ritorno alla guerra fredda
di Ugo Tramballi | 23 febbraio 2014
Ogni volta che una crisi mette a confronto russi e americani, per semplificazione giornalistica si usa dire che è tornata la Guerra fredda. Succede quando non si mettono d'accordo sulla riduzione degli arsenali nucleari, per la Libia, la Siria. L'Ucraina è un problema estremamente più pericoloso degli altri, almeno per l'Europa. Dunque, si dà ancor più per scontata la Guerra fredda, in un'escalation da Europa anni Sessanta.
Per quanto la notizia contraria sarebbe "sexy", quell'epoca di confronto fra due superpotenze non può più tornare. Per due ragioni: la Cortina di ferro divideva due mondi interamente contrapposti, ognuno dei quali avrebbe potuto vincere e imporre il suo modello all'altro. Oggi è il sistema di mercato che governa la Russia: oligarchico, opaco, monotematico sull'energia, ma a grandi linee è lo stesso principio capitalista di Washington e Bruxelles.
La seconda ragione è che oggi c'è una sola superpotenza, gli Stati Uniti, per quanto amleticamente riluttanti nell'interpretare questo ruolo. La Russia è a fatica una potenza regionale: solo i nove fusi orari (erano 11 fino al 2010, quando li ridusse Dmitri Medvedev) le permettono di avere interessi in una parte vastissima di mondo. Questo, insieme alle testate nucleari, alla produzione di gas e petrolio, fa credere a Vladimir Putin di avere la stessa autorevolezza di Breznev. Dopo oltre trent'anni di decadenza, nemmeno le imponenti spese militari stabilite per i prossimi anni rendono temibile ciò che resta dell'Armata Rossa.
A dire il vero Putin e la maggioranza del potere moscovita, non sono i soli a sognare la Guerra fredda. Ci sono piccoli ma autorevoli Dottor Stranamore anche al Pentagono, nell'industria militare americana, soprattutto fra senatori e deputati sulla collina del Campidoglio. Il potere a Mosca e le lobbies attorno a quello di Washington, s'impegnano a rendere contrapposte agende internazionali che altrimenti americani e russi non avrebbero così distanti.
Neanche a Mosca sono eccitati all'idea che l'Iran possa sviluppare l'arma nucleare; in Siria sono interessati alla sopravvivenza del regime, non necessariamente a quella di Bashar Assad; sostengono il piano di pace arabo-israeliano di John Kerry; hanno lo stesso interesse - forse un interesse oggi ancora più diretto - nella lotta contro la diffusione del qaidismo. In Africa la Russia ha poco spazio ma per colpa della Cina, non degli Stati Uniti. Anche all'Avana e Caracas hanno più peso la potenza commerciale e gli investimenti cinesi.
Il continente europeo è un'altra storia. Ricordando che la Russia è sempre stata un impero terrestre (la potenza di Gran Bretagna e Stati Uniti è oceanica), è in questo immenso territorio che Putin sogna di costruire la sua comunità euroasiatica. Fino ad ora sono stati arruolati Bielorussia e Kazakhistan, le altre repubbliche asiatiche e l'Armenia sono candidature certe. Il disegno di ricreare con altri mezzi l'Unione delle repubbliche sovietiche è evidente ma l'amministrazione Obama non ha mai mostrato di volersi occupare del problema: questa parte del mondo è fuori dalle sue sfere d'influenza. Ritirandosi dall'Afghanistan, quest'anno gli americani lasceranno anche l'unica base di transito che avevano nella regione, a Manas in Kyrgyzstan.
Nemmeno l'Unione europea obietta al lento riformarsi di questa comunità euroasiatica. In nome del realismo politico e delle molte questioni aperte con la Russia, sia gli Stati Uniti che la Ue avevano già venduto anche l'Ucraina alla determinazione russa di averla nel suo spazio geopolitico ed economico. A Washington e a Bruxelles le credenziali di Yulia Timoshenko non erano mai sembrate cristalline.
Fino a che gli ucraini non sono scesi in strada a protestare, a farsi arrestare, ferire, uccidere, giorno dopo giorno in nome di una libertà molto simile alla nostra. Non si può ignorare la determinazione di un popolo nel voler essere europeo, quando quel modello sembra in grave crisi: almeno a noi, guardando da dentro. Né il realismo di Barack Obama il quale di tutto vorrebbe occuparsi tranne che di affari internazionali, poteva disinteressarsi al massacro ucraino.
Il problema ora è come uscirne bene: come favorire la crescita democratica dell'Ucraina senza perdere il contatto con la Russia. Più della Bielorussia e dell'Armenia, l'Ucraina è fondamentale per il disegno di Putin. E' difficile immaginare quello spazio euroasiatico senza il più importante dei potenziali partner a Ovest di Mosca. La sfida è notevole, per noi e per gli Stati Uniti: non possiamo più abbandonare l'Ucraina né rinunciare alla collaborazione internazionale con la Russia. Per la Ue alla vigilia delle elezioni, è un banco di prova ancora più decisivo. Aiuterebbe gli elettori europei a ricordare che il futuro dell'unione non è solo banche tedesche e moneta comune ma un insieme più ampio di diplomazia, valori e ideali.