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Krugman: Un revisore dei conti per la Fed? Una pessima idea

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gli economisti

Krugman: Un revisore dei conti per la Fed? Una pessima idea

Mike Konczal, commentatore economico del Washington Post, ha scritto un eccellente editoriale per spiegare perché la proposta del senatore Rand Paul di sottoporre a revisione i conti della Fed sia una cattiva idea. Andate a leggerlo, merita; io mi limiterò a fare un'osservazione integrativa.
Che cosa vuol dire sottoporre una banca privata a revisione dei conti lo sappiamo: vuol dire verificare che non stia sprecando i soldi dei depositanti o assumendosi rischi indebiti. Ma la Fed non si occupa di investire, se non per ragioni tattiche: la Fed esiste per gestire la moneta, non per guadagnare soldi.
E allora quali conti bisognerebbe rivedere? Supponiamo che la Fed stia acquistando attività rischiose, per esempio titoli garantiti da ipoteca. È una cosa buona o cattiva? Il fatto che esista o meno la possibilità che qualcuno di quei titoli vada male è praticamente irrilevante per la risposta a questa domanda: l'unica cosa che conta sono gli effetti sull'economia.
E sappiamo bene a chi si rivolgerebbero Rand Paul e compagnia per eseguire questo «auditing»: se non i paladini del gold standard, quanto meno quel gruppo di commentatori economici di destra che nel 2010 pubblicò sul Wall Street Journal una lettera aperta al presidente della Fed Ben Bernanke per mettere in guardia dal rischio di deprezzamento della moneta e inflazione.

Come scrive Konczal, tutta questa storia dell'auditing della Fed è solo una scusa per imporre politiche monetarie ristrettive, basate a loro volta su assurdità riguardo al deprezzamento della moneta.
Non ci dimentichiamo che Paul Ryan, che in questo momento è il principale responsabile della politica economica del Partito repubblicano, fonda le proprie idee in materia di politica monetaria su un discorso contenuto nel romanzo del 1957 La rivolta di Atlante, opera filosofico-fantascientifica della scrittrice liberista Ayn Rand.
Che cosa fare quando avete torto
Come ci ha ricordato recentemente l'editorialista Barry Ritholtz in un post online, è appena trascorso il terzo anniversario dalla pubblicazione di quella lettera aperta al Wall Street Journal, in cui i commentatori economici di cui sopra avvisavano che le politiche di allentamento quantitativo della Fed avrebbero avuto gravi conseguenze. Avevano completamente torto.
Rileggendo la lettera adesso viene da domandarsi che razza di modello economico avessero in mente quegli economisti. Ecco un passaggio: «Il previsto piano di acquisto degli asset rischia di produrre deprezzamento della valuta e inflazione, e a nostro parere non servirà a raggiungere l'obbiettivo della Fed di favorire l'occupazione».

In sintesi, le politiche della Fed avrebbero prodotto inflazione, ma non espansione dell'economia? E come avrebbe dovuto funzionare la faccenda?
Nel suo post, Ritholtz sostiene che non vale la pena di stare a sentire queste persone perché hanno avuto torto, e non nego che questo sia un segnale d'allarme. La mia opinione, tuttavia, è che non bisogna guardare soltanto se una persona ha avuto torto o ragione, ma chiedersi come ha reagito quando le cose sono andate in modo diverso da come aveva previsto.
Dopo tutto, se scrivi di questioni di attualità e non sbagli mai, vuol dire che non ti prendi nessun rischio. Le cose succedono, e a volte non sono quelle che ti aspettavi tu.
Che cosa fai in quel caso? Sostieni di non aver mai detto quello che hai detto? Ti scagli contro chi ti critica e fai la vittima? O cerchi di capire dove hai sbagliato e perché, e rivedi le tue teorie?

Io mi sono sbagliato parecchie volte nel corso degli anni, di solito su cose di scarsa rilevanza, ma a volte su argomenti importanti. Prima del 1998 non pensavo che la trappola della liquidità fosse un problema serio: l'esempio del Giappone mostrò che avevo torto e ne conclusi che invece era un problema. Nel 2003 pensavo che gli Stati Uniti corressero il rischio di una perdita di fiducia analoga a quella della crisi asiatica: quando questa perdita di fiducia non si verificò riesaminai i miei modelli, mi resi conto che il fatto di avere un debito in valuta estera giocava un ruolo cruciale e cambiai idea.
Il caso dell'euro è stato leggermente diverso: ero molto pessimista sulla strategia del rigore e della svalutazione interna, che ritenevo avrebbe avuto un costo terribile, e su questo ho avuto completamente ragione. Avevo anche previsto che questo costo si sarebbe rivelato politicamente insostenibile e avrebbe messo in crisi l'euro stesso. Finora su questo mi sono sbagliato. Il mio modello economico ha funzionato a dovere, ma il modello politico dedotto da quello economico no. Va bene, così va la vita.
Qualcuno dei firmatari della lettera del 2010 ha ammesso di essersi sbagliato e ha spiegato i motivi per cui si è sbagliato? Uno qualunque di loro, intendo. Per quello che ne so, nessuno.
E a questo punto diventa qualcosa di più di un dibattito intellettuale. Diventa una prova di carattere.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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