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Krugman: negli Stati Uniti il capitale regna ancora sovrano

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Krugman: negli Stati Uniti il capitale regna ancora sovrano

Ho appena completato la bozza di una lunga recensione del nuovo libro di Thomas Piketty, Capital in the Twenty-First Century, in cui l'economista francese sostiene che stiamo tornando a un «capitalismo patrimoniale», dominato dalla ricchezza ereditaria. È un libro straordinario: fra i tanti suoi pregi c'è quello di essere riuscito a integrare in modo efficacissimo la crescita economica, la distribuzione del reddito tra i fattori (capitale e lavoro) e la distribuzione del reddito individuale in un unico impianto teorico.

Un piccolo punto debole c'è, nel libro, ed è il fatto che questo grandioso quadro di insieme non spiega in modo accurato l'esplosione della disuguaglianza di reddito negli Stati Uniti, che fino a questo momento è stata trainata dal reddito di lavoro, più che dal reddito di capitale. Piketty affronta la questione, ma come una sorta di digressione dal tema centrale.

Capital in the Twenty-First Century resta comunque un capolavoro, ma ho ragionato un po' su questo tema e mi colpisce vedere fino a che punto la destra americana, nell'anno di grazia 2014, sia incardinata sulla difesa e la promozione del capitalismo patrimoniale, anche se non siamo ancora arrivati a una situazione di questo genere.

Basta ripensare alla presidenza di George W. Bush, che aveva come tema economico principale il messaggio della «società della proprietà», che in pratica voleva dire che anche se eri uno che si impegnava e lavorava sodo non potevi essere un americano a tutti gli effetti se non avevi un cospicuo patrimonio. O pensate al famoso tweet del capogruppo repubblicano della Camera dei rappresentanti, Eric Cantor, che nel settembre del 2012 aveva scelto la ricorrenza del Labor Day (la festa dei lavoratori in America) per rendere omaggio agli imprenditori invece che ai lavoratori. Più di recente, Mike Konczal, del Roosevelt Institute, ha sottolineato che il movimento del Tea Party, con buona pace di tutti quelli che lo ritraggono come una ribellione contro il predominio del grande capitale all'interno del Partito repubblicano, ha un programma che coincide alla perfezione con gli obbiettivi di Wall Street.

Ah, e non ci dimentichiamo della lunga crociata contro la tassa di successione.
Per farla breve, il Partito repubblicano è una formazione politica che sostiene sempre più coerentemente, quasi istintivamente, gli interessi del capitale rispetto a quelli del lavoro.
Ma la domanda è: perché?

Forse il partito sta rispondendo a un cambiamento della società americana: non sono forse sempre più numerosi gli americani dotati di un patrimonio, attraverso i fondi pensione?
Ma la risposta è no. Al contrario, la concentrazione del reddito di capitale in poche mani si è drasticamente accentuata. Nascosti tra le pieghe di un rapporto dell'Ufficio bilancio del Congresso sulle linee di tendenza della distribuzione del reddito negli Stati Uniti si possono trovare i dati sulla concentrazione dei diversi tipi di reddito (li potete leggere qui: cbo.gov/publication/42729). Il fenomeno a cui stiamo assistendo è che oggi metà dello spettro politico, per riflesso condizionato, accorda molta più attenzione al capitale che al lavoro, in un momento in cui il reddito di capitale si concentra sempre più in poche mani (e si avvia sicuramente a concentrarsi in gran parte nelle mani di persone che hanno ereditato la loro ricchezza).
Curioso, non vi pare?
Quello che l'America non è, o in ogni caso non era

Ho ricevuto una letterina:
«Paul, sei un subumano comunista traditore che andrebbe deportato. Sei una vergogna per i fondatori dell'America e un affronto alla Costituzione. I Repubblicani credono nella protezione dei soldi dei LAVORATORI non di chi vive di rendita. Tutti i lavoratori, poveri e ricchi, dovrebbero essere protetti dalle tasse alte allo stesso modo».
Ricevo messaggi del genere almeno una volta al giorno. Ma è stato abbastanza interessante leggere questo dopo aver scritto la recensione del libro di Piketty, perché uno dei punti che enfatizza l'economista francese è proprio che l'idea moderna che la ridistribuzione e il fatto di «penalizzare chi ha successo» siano qualcosa di non-americano e anti-americano è totalmente in contraddizione con la storia reale del nostro Paese. C'è un capitoletto del libro che si intitola: «La tassazione confiscatoria dei redditi eccessivi: un'invenzione americana», in cui Piketty dimostra che gli Stati Uniti in realtà sono stati i primi a imporre tasse molto alte ai ricchi:
«Se si guarda alla storia della tassazione progressiva nel XX secolo, si rimane sorpresi nel vedere quanto fossero all'avanguardia in questo campo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, in particolare questi ultimi, che hanno inventato la tassa confiscatoria sui redditi e i patrimoni ‘eccessivi'».

Perché era così? Piketty chiama in causa l'ideale egualitaristico dell'America, che si accompagnava al timore di creare un'aristocrazia ereditaria. Le tasse alte, specialmente quelle di successione, erano motivate in parte dalla paura di «finire per assomigliare alla vecchia Europa». Fra quelli che invocavano, per ragioni sociali e politiche, l'introduzione di aliquote consistenti sulle eredità c'era il grande economista Irving Fisher.
Tanto per ribadire il punto: durante gli anni della Progressive Era, tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, la tesi che bisognasse imporre tasse alte ai ricchi proprio per impedirgli di diventare più ricchi era un'idea diffusissima e largamente accettata negli Stati Uniti: oggi sono ben pochi i politici che si arrischierebbero a sostenere una posizione simile.
E come il mio corrispondente ha così vividamente illustrato, molte persone al giorno d'oggi pensano che la ridistribuzione e l'imposizione di tasse alte ai ricchi siano in antitesi con gli ideali americani, anzi che siano praticamente delle tesi comuniste. Non hanno idea (e non ci crederebbero) che la ridistribuzione in realtà è americana quanto la torta di mele.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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