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Simon Johnson: se le grandi banche condizionano i policymaker

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Global view

Simon Johnson: se le grandi banche condizionano i policymaker

WASHINGTON, DC – Le preoccupazioni per lo state capture non sono affatto una novità. In molti paesi gli interessi speciali continuano a mantenere un'indebita ed esorbitante influenza sui legislatori, mentre gli enti di regolamentazione sono sempre propensi a vedere il mondo con gli occhi delle persone sulle cui attività dovrebbero esercitare il controllo. Ma l'espansione della finanza nei paesi industrializzati ormai ha portato tali questioni sotto una luce nuova, molto più cruda.

Prima del 1939, le retribuzioni e gli utili del settore finanziario negli Stati Uniti erano quantificabili in meno dell'1 per cento del Pil, mentre oggi sono al 7-8 per cento. Negli ultimi decenni, le attività finanziarie sono cresciute in maniera spropositata rispetto a qualsiasi altro indice dell'attività economica, a mano a mano che l'aspettativa di vita è aumentata e che i baby boomer nati dopo la Seconda guerra mondiale hanno iniziato a risparmiare in vista della pensione. Rispetto alle dimensioni dell'economia statunitense, le singole banche oggi sono molto più grandi di quanto erano all'inizio degli anni Novanta. (In altri paesi industrializzati le cifre variano, ma l'espansione della finanza è un fenomeno generalizzato.)

La crisi finanziaria globale del 2007-2008 e la profonda recessione che le ha fatto seguito hanno mostrato molto facilmente che il settore finanziario negli Usa e altrove era diventato troppo potente. Dagli inizi degli anni Ottanta si era verificata infatti una forma di "cattura cognitiva", e i policymaker si sono convinti che innovazione e deregulation non potevano che migliorare il funzionamento sia dell'intermediazione finanziaria sia dell'economia nel suo complesso. La crisi ha dimostrato l'infondatezza di questa teoria, imponendo a milioni di persone costi ingenti, quantificabili in termini di posti di lavoro perduti, vite sconvolte, e una più faticosa povertà. La regolamentazione finanziaria nel 2010 è entrata in una fase nuova, più controversa, quanto meno negli Stati Uniti. La maggior parte degli addetti ai lavori ormai ammette l'esistenza di un rischio sistemico assimilato a una forma di "inquinamento", imputabile al fatto che le banche e gli altri istituti finanziari non necessariamente assorbono i costi complessivi delle loro strutture e attività. E questi costi possono essere mastodontici. In teoria, possono essere abbastanza grandi, malgrado i recenti tentativi di riforma, da innescare una Seconda Grande Depressione (o qualcosa di peggio).

Amministrare grandi aziende finanziarie con piccole quantità di capitale azionario netto e molti debiti può essere nell'interesse dei manager, ma di sicuro non è nell'interesse del resto della società. Oltretutto, erogare ingenti sussidi impliciti a imprese che sono troppo grandi per fallire non dovrebbe essere una politica praticabile, in quanto incoraggia queste imprese ad assumersi un rischio eccessivo (e a diventare ancora più grandi).
Nonostante tutto, però, il dibattito su tali questioni resta aperto. Il problema non è più tanto una questione di principio. Ormai si tratta semplicemente di una faccenda di soldi, soprattutto di contribuiti alle campagne elettorali, ma anche di intrallazzi tra Washington e Wall Street, come pure di enormi interessi a favore delle mega-banche che riversano milioni di dollari nei think-tank e in altre organizzazioni più oscure.

Il documentario Inside Job, premiato con l'Oscar, ha urtato la sensibilità di alcuni e ha portato alla luce il coinvolgimento e i rapporti di alcune persone, tra le quali alcuni accademici, con il settore finanziario. Sussistono tuttavia profondi legami monetari tra le grandi banche e le persone che si proclamano analisti indipendenti e offrono consulenze e opinioni in veste di esperti. Alcuni funzionari governativi continuano a essere molto "catturati". Ma c'è anche una buona notizia: altri funzionari adesso sono molto più risoluti e inclini a opporre resistenza a questo sistema. Sempre più spesso outsider ben informati e indipendenti si organizzano e riescono a risultare influenti, soprattutto quando possono lavorare a stretto contatto con funzionari favorevoli alle riforme.

Le ultime indicazioni del Consiglio dei governatori della Federal Reserve degli Stati Uniti – un tassello di importanza cruciale in questo puzzle – sono incoraggianti. Per esempio, i nuovi regolamenti per le banche straniere che operano negli Usa in sostanza richiedono di finanziarsi con tanto capitale quanto quello richiesto alle banche americane. Ma, alla vigilia di una nuova campagna presidenziale, la battaglia per questo importante spazio dello stato americano è lungi dal potersi dire conclusa. Con la sola eccezione del Regno Unito, negli ultimi decenni l'ideale ultimo del libero mercato ha avuto meno presa in Europa di quanta ne ha avuta negli Stati Uniti. Nondimeno, la sfida di attuare riforme finanziarie nella zona euro è al momento molto più difficile. I governi considerano le banche nazionali come importanti acquirenti del debito sovrano. Le banche sostengono invece che una regolamentazione più efficace limiterebbe il credito e rallenterebbe il ritmo della ripresa economica.

Di conseguenza, in Germania e in Francia (come in Giappone) le autorità hanno continuato a opporsi agli aumenti dei requisiti di capitale, nonostante l'ampio consenso sul fatto che farlo sarebbe una componente fondamentale di una ri-regolamentazione efficace. La loro opposizione ha compromesso gli sforzi internazionali volti a costruire un sistema più resiliente – e probabilmente comprometterà gli sforzi volti a mettere l'economia europea su una rotta più sicura. In altre parole, gli stati europei più importanti restano "catturati", in balia dagli interessi finanziari, proprio come lo è sempre stato lo Stato americano. Le grandi banche americane adesso intendono sfruttare il ritmo tranquillo del cambiamento in Europa a mo' di freno per la politica Usa (per esempio tramite i negoziati sul libero commercio in corso tra l'Unione europea e gli Stati Uniti). Se gli Stati Uniti intendono evitare le conseguenze di una capture del governo da parte delle grandi banche di Wall Street, non possono aspettare che l'Europa recuperi il ritardo accumulato nei confronti della regolamentazione, compresi i requisiti di capitale.

Traduzione di Anna Bissanti
Simon Johnson è professore alla Sloan School of Management dell'Mit, ed è il coautore di White House Burning: The Founding Fathers, Our National Debt, And Why It Matters To You. Copyright: Project Syndicate, 2014.
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